#iostocongabriele
Basterebbe una domanda semplice semplice: in quale democrazia, occidentale o no, un giornalista di un altro Paese è arrestato il 10 aprile in una zona vicina al confine con la Siria, tenuto in isolamento fino al 18 quando gli è concessa una telefonata a casa, sul suo capo pendono accuse misteriose e indistinte e il suo governo ci mette una settimana abbondante prima di pretendere con forza e pubblicamente la sua liberazione o almeno in trasferimento nella nazionale natale?
La risposta è anche questa semplice semplice: in nessuna democrazia anche perché se così fosse non la si potrebbe definire tale. E non solo perché ci si dovrebbe porre qualche interrogativo sulla capacità di governo e sul grado di democrazia stesso della nazione dell'arrestato.
Così fra domande e risposte si riassume la vicenda di Gabriele Del Grande, il giornalista e documentarista italiano che dal 10 aprile è nelle celle della Turchia che si è appena affidata in pieno alla sultanocratura (mix di sultanato-democrazia-dittatura) di Recep Tayyp Erdogan . Dopo più di una settimana sembra che il governo Gentiloni si sia reso conto, al di là della solita irrilevanza del ministro degli Esteri Alfano, che la partita è grossa e ne va del concetto di libertà di stampa, della libertà e dei diritti civili in un Paese membro della Nato e da decenni sulla porta dell'Europa, pronto e voglioso di fare in gran passo ma mai in grado di mettersi nelle condizioni di compierlo. L'Esecutivo ora preme, con forza, arriva quasi a minacciare, si mobilitano - dopo lustri di illuminata assenza - gli intellettuali più o meno organici. E tale attivismo non può che incuriosire il giorno dopo la risicatissima vittoria di Erdogan al referendum che ha trasformato la Turchia in una repubblica iper-presidenziale, meglio in una sultanocratura: non è che l'Europa, tramite l'Italia, vuol usare il caso Del Grande per regolare i conti con una Turchia abbastanza inaffidabile nella lotta contro l'Isis, ora attratta dalla Russia, ora dall'America di Trump? Un dubbio che sembra avere anche Ankara pronta alla sfida tanto da vietare l'incontro del giornalista con una delegazione dell'ambasciata italiana.
Si profila in tal modo un braccio di ferro che non fa prevedere nulla di buono. Il caso Regeni è un fantasma diplomatico con cui fare i conti e che spinge l'Italia in un angolo buio per la capacità di difendere i suoi cittadini e, insieme, le libertà fondamentali garantite dalla nostra Costituzione.
“Sono molto preoccupato e sto cercando di capire se può essere utile un mio intervento per raccogliere il network che mi segue per far si che il ministro degli Esteri Angelino Alfano intervenga. La Farnesina è in ritardo in modo colpevole. Bisogna dare un messaggio, anche simbolico. Sicuramente, spero che dietro le quinte, in silenzio, stiano negoziando ma c’è bisogno di un messaggio politico”. (Roberto Saviano)Vedremo come la vicenda si svilupperà anche se i timori di Saviano possono essere condivisi facilmente sulla scorta del passato: di Regeni, ma anche dei marò, di Cesare Battisti, tutti casi dove la politica estera italiana non ha certo brillato. Per non parlare di altre vicende, minori, tenute segrete e meno edificanti.
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