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Uomini forti, popoli deboli

Uomini forti crescono. I popoli deboli pure. E le democrazie finiscono in un angolo con poteri sempre più centralizzati e controllati, condizioni che vedono il potere diffuso, di base come i veri nemici. Da reprimere in vari modi per essere in grado di perpetuare la prevaricazione sulle forme di organizzazione autonoma delle periferie.
Recep Tayyp Erdogan in Turchia con un referendum farsa o comunque gravemente influenzato da brogli si  è assicurato un potere pressoché assoluto fino al 2029, Orban in Ungheria oltre ad avere sigillato i confini con un muro di acciaio e polizia armata, riduce gli organismi in grado di fare da contraltare al suo potere, arriva a chiudere le università. Putin è il leader da anni di questa scuola di questa democrazia assolutista e adesso anche negli Stati Uniti Grump tradisce la sua voglia di "mani libere" con il controllo della Corte Suprema, di attacco alla stampa. Di coltivazione ossessiva delle fake news.
Così oggi non stupiscono le congratulazioni di Trump a Erdogan. Come non stupiscono le scorrettezze - per non chiamarli brogli - nel referendum  di Ankara. Oltre all'Ocse e ai toni duri della Ue, quasi tutti i commentatori parlano di "morte della democrazia". Dal lato interno è vero, ma sul versante esterno il discorso è ben diverso. E il referendum di Erdogan potrebbe alla fine rivelarsi una trappola, o meglio un boomerang,
Ma chi ha vinto e chi ha perso?
Sul piano formale Erdogan adesso tiene in pugno il suo Paese a forza di decine di migliaia di arresti di giornalisti, magistrati, insegnanti e militari, insomma l'asse cultural-laico-kemalista della Turchia moderna. Ma nella sua ansia di un potere assoluto, in linea con l'aspirazione a una "democratura", l'uomo che si è preso, probabilmente con i brogli sui 2 milioni e mezzo di voti, poco più della metà del Paese, ora è in netta rottura con l'altra fetta. E il voto delle campagne, in uno Stato che vuol essere moderno e aspira al ruolo di potenza regionale, non ha lo stesso peso di quello delle città. Un po' sul piano interno, ma soprattutto molto, tantissimo sul piano esterno. Qui Erdogan è debole: nel dopo colpo di Stato tentato e fallito - ammesso che alla fine non si riveli una mossa astutamente messa in atto dal "sultano" - si è giocato buona parte dei consensi occidentali, il suo pugno di ferro e la minaccia sempre brandita del ripristino alla pena di morte, hanno allontanato la Turchia da un già difficile approdo all'Europa. I complimenti di Trump forse lo rassicurano sulla permanenza nella Nato, ma è arduo pensare a un suo ruolo attivo in Siria, sia contro Assad - per compiacere gli Usa mettendolo però contro la Russia e risollevando i sospetti sui legami oscuri con l'Isis o i gruppi radicali islamici come Al Nusra - sia pro Assad - in questo caso finirebbe per scontentare Trump e i sauditi - senza contare che la sua lotta ai curdi è malvista da tutte le parti per il ruolo fondamentale che i peshmerga dell'Ypg hanno nella lotta all'Isis e nella riconquista delle sue roccaforti in Siria come in Iraq. L'incertezza in politica estera si abbina anche al governo che da "sultano" moderno Erdogan  vuole esercitare: potenza musulmana ma nella Nato, legata a Israele come alla Russia e all'America, la Turchia non può permettersi di eliminare o discriminare ed escludere dal potere gli strati più attivi e moderni, quelli che possono attirare capitali e intelligenze, aprire ponti e relazioni anche in un'era post-globalizzazione  come quella che si prospetta ora. Ecco il rebus al quale Erdogan deve rispondere. La sua "vittoria", in questo, non lo aiuta.

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