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Tu chiamali, se vuoi, tagli

Due miliardi e 300 milioni quest'anno, altrettanti l'anno prossimo. Non li vogliono chiamare tagli ma si preferisce l'ipocrisia della "razionalizzazione". Fatto sta che dopo l'intervista a Repubblica del nuovo commissario alla spending review Yoram Gultgeld in cui annunciava l'intenzione di risparmiare 10 miliardi,

grazie all'accordo con tutte le Regioni (che ora fanno finta di niente e di essere colpite dallo Stato quando sapevano benissimo  cosa sarebbe accaduto visto che ne avevano discusso e deciso con il ministro Lorenzin), il governo è passato ai fatti sfruttando il decreto sugli enti locali.
Il premier teme che parlando di tagli nella Sanità si ripeta la cattiva comunicazione che, a suo dire, avrebbe di fatto danneggiato la legge sulla Buona Scuola (Renzi , si sa, scambia con frequenza la forma per il contenuto) e, appunto, preferisce soffermarsi e fare dire ai suoi che si tratta di razionalizzare.
Certo la sanità ne ha bisogno. Già il vecchio commissario alla spending, Carlo Cottarelli, aveva indicato i punti critici della spesa sanitaria, ma in questi anni tramite i piani concordati con le Regioni qualcosa è già stato ridotto e anche le aziende sanitarie cono state costrette dagli stessi enti a rivedere i loro budget. Adesso però si va oltre e nessuno lo nega: a parte che razionalizzare vuol dire chiudere strutture (e non sempre chi è in rosso fornisce un cattivo servizio alle comunità, perché vanno anche considerati altri parametri come la copertura territoriale), ora si punta a stabilire un livello di prestazioni ottimale, sforando il quale il costo ricadrà sulle spalle di cittadini o degli stessi medici. Così si pensa di costringere questi ultimi a rinunciare alla "medicina difensiva", ovvero alla prescrizione di esami e indagini diagnostiche solo per evitare le possibile cause. Ma si fa finta di non sapere che sarà molto difficile decidere sulla base di protocolli generali quando un esame e un'analisi è veramente necessaria oppure no.
Il risultato sarà che si risparmierà qualcosa ed aumenteranno gli esborsi dei cittadini che si pagheranno da soli le prestazioni fuori lista o rifiutate dai medici. 
Ma si avrà una ricaduta certa con un aumento di patologie non diagnosticate in tempo e che la sanità pubblica sarà costretta ad affrontare quando raggiungeranno un livello di evidenza e gravità superiori, c quindi con costi superiori.
Tuttavia, proprio partendo da quest'ultima considerazione, se è vero che un governante deve affrontare la questione economica, è ancora più reale la considerazione che non si può ridurre la salute a un puro esercizio finanziario.
Ecco quindi che ha fatto (per fortuna, una volta tanto) rumore la presa di posizione di Gino Strada il quale è partito da un concetto semantico estremamente significativo: oggi le strutture si chiamano Aziende invece di Ospedali e questo la dice lunga sul fatto che, nel pubblico come nel privato, si realizzino profitti. Mentre, osserva ancora il fondatore di Emergency ,
10 milioni di italiani non riescono a curarsi come si deve perché non possono pagare. E intanto i profitti nella sanità ammontano a 25 miliardi.

Perché dice Strada, non partire dal taglio dei profitti, pur eliminando sprechi e inefficienze e dare vita a ospedali no profit?Senza dimenticare che, ha aggiunto, la sanità dovrebbe costare quanto serve a curare le persone.

Tutte.
E io aggiungo: la salute umana - non la sanità - dovrebbe essere una questione di umanità, assistenza, cura e non un parametro finanziario perché ha a che fare, insieme all'istruzione, con la vita stessa dell'uomo, la determina e la guida, guarda all'oggi e al domani. Quindi sanità e istruzione non dovrebbero per forza produrre attivi di bilancio ma solo ridurre i passivi. Se si tratta di risparmiare uno Stato che pensa ai suoi cittadini come uomini e donne e non come contribuenti o sudditi, dovrebbe muoversi in questo senso. Risparmi e profitti li faccia su altre voci.

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