Poteva assomigliare a una critica preventiva, ma oggi si può dire che fu vera e semplice preveggenza. Basata sui fatti. Allora come oggi.
Il caso della rimozione del capo dell'Fbi James Comey sta gettando la presidenza dentro un gorgo di sospetti, illazioni, conflitti palesi e non, delegittimazioni come quasi mai si erano viste al 1600 di Pennsylvania Avenue se non - guarda caso - al tempo dello scandalo Watergate.
Che Trump abbia mentivo e ripetutamente, è sotto gli occhi dell'opinione pubblica mondiale: prima ha detto di aver agito su indicazione del procuratore generale, Jeff Sessions (anche lui al centro dell' "interesse" dell'Fbi per aver mentito due volte al Congresso su rapporti con la Russia) e del vice procuratore generale Rod J. Rosenstein, poi ha ammesso che aveva già deciso di cacciare Comey per il caos provocato dall'annuncio di indagini sulle mail di Hillary Clinton proprio mentre questa correva per la presidenza. Infine ha confermato di aver agito da solo e d'impulso. I suoi tweet sono lì a confermarlo.
Il riferimento di non essersi mosso per le indagini sui rapporti tra la Russia e il suo staff durante la campagna elettorale assomigliano molto a un'excusatio non petita, anche perché si sa bene - e molti agenti - sono pronti a ribadirlo che le indagini stanno entrando in un terreno molto proficuo. E molto grave è la circostanza, confermata anche questa da fonti della presidenza, che nel faccia a faccia tra Trump e Comey il presidente abbia chiesto se era indagato ricevendo una risposta negativa (ma Comey poteva mentire proprio per salvare l'indagine e in nome dell'indipendenza dell'Fbi) e poi abbia chiesto "fedeltà" al direttore del Federal Bureau ottenendo come risposta l'assicurazione sull'"onestà", anche questo come garanzia di autonomia.
A questo punto la frittata è fatta, condita dagli imbarazzi nel comunicare e spiegare la notizia - da comiche i comportamenti del portavoce Sean Spicer - e dalla gestione prossima futura. L'indagine va avanti, come detto, e sembra che sotto i riflettori stia finendo l'ex consigliere per la sicurezza Michael Flynn, dimessosi ma sempre difeso da Trump nonostante al momento di lasciare il presidente avesse in pratica ammesso che il suo uomo gli avesse mentito sulle relazioni con Mosca. AD aggravare il tutto la minaccia di Trump di rendere noti nastri sui colloqui suoi con il capo dell'Fbi, il che dimostra la sua attitudine a registrare di nascosto. Ma quei nastri dovrebbero far tornare alla memoria il precedente di Nixon e la stessa Fbi sembra convinta che la loro diffusione potrebbe nuocere al presidente più che al suo ex capo se non altro per il principio di separazione dei poteri e dell'autonomia che il Bureau ha in materia di indagine giudiziaria. Oltretutto da Democratici e Repubblicani del Congresso si comincia a fare pressione per poter acquisire quelle registrazioni.
Il guaio per Trump è che ora qualcuno, proprio ripensando al Watergate, comincia a fare riferimento all'impeachment, improbabile e quasi impossibile, vocabolo che però evoca un sentiment che potrebbe farsi strada. Anche se non è mai accaduto che un presidente sia stato messo in stato d'accusa, il precedente di Nixon dimissionario a un passo dall'impeachment provoca più che un fastidio alla Casa Bianca. Anche perché se è nei poteri del presidente di cacciare il capo dell'Fbi (avrebbe potuto farlo all'inizio con la motivazione, accettabile negli Usa, del rapporto di fiducia, ma sarebbe stato singolare poche settimane dopo che lo stesso Trump aveva elogiato l'Fbi e Comey per gli accertamenti sulle mail della Clinton), farlo in queste condizioni di ombre sui rapporti con la Russia non è la mossa migliore per la politica e per l'opinione pubblica: fra l'altro è uscito in questi giorni un sondaggio secondo cui solo il 29% degli americani condivide la cacciata di Comey.. Ma forse neppure per chi indaga in quanto si palesa una possibile "ostruzione alla giustizia", reato molto serio e grave (leggi qui) negli States soprattutto se a compierlo è il "commander in chief ".
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