Una guerra asimmetrica, crudele come poche, che spara nel gruppo e mira a fare più male possibile alla popolazione civile, giovani soprattutto, gente che si diverte, in festa, che ascolta musica, che sorseggia alcol al bar, che mangia al ristorante, che viaggia e va in vacanza. Lo jihadismo attacca i piaceri occidentali, vuole mostrare - coerente con il credo nero, repressivo, sofferente comunque e penitente sempre - che gioia e piacere vanno puniti. Anche usando una fantomatica e simbolica "spada" di un Dio che solo il fanatico religioso vede.
Ma le bombe dell'Isis, i suoi uomini che tornano a casa dal disfacimento in corso del Califfato, sono ben concrete, strumenti per costruire i quali servono alleanze, complicità, basi e istruttori. Soldi soprattutto.
Ecco perché colpisce che l'attentato di Manchester sia avvenuto proprio mentre Donald Trump ha confermato e ribadit - anche con i 120 milioni di dollari in armi - i legami con l'Arabia Saudita, il regno wahabita che per anni, decenni ha aiutato culturalmente l'islamismo radicale. Una lettura questa, ormai condivisa.
L’Is è una cultura prima di essere una milizia: come impedire che le generazioni future scelgano il jihadismo se non sono stati arginati gli effetti della Fatwa valley, dei suoi religiosi, della sua cultura e della sua immensa industria editoriale? (Kamel Daoud, The New York Times, su Internazionale del 25 novembre 2015).Trump sa fin troppo bene i dei legami nel mondo sunnita: glili hanno scritto in tonnellate di dossier i migliori analisti del Dipartimento di Stato e della Cia. Lo sa lui come lo sapeva il suo predecessore Obama. Ma quest'ultimo ha cercato, pur mettendo in campo la coalizione anti Isis pur tra incertezze ed errori, di equilibrare i poteri nella regione, siglando la famosa intesa sul nucleare con l'Iran sciita, il più forte e pericoloso avversario di Riad. Trump invece è tornato alle vecchie, consuete e inutili teorie conservatrici e teocom del Male contrapposto al Bene occidentale e dei suoi alleati, dell'Islam che non è tutto cattivo e dei necessari legami con gli alleati di sempre: i Saud. Senza perdersi nelle sottili alchimie di Hillary Clinton e negli "scomodi" e imbarazzanti (per l'Arabia) richiami ai diritti civili e alla condizione della donna del presidente democratico. E nel suo discorso, più vago e attento agli equilibri, ha usato un linguaggio morbido sull'Islam "dimenticando" gli accenti alti e vibranti della campagna elettorale e dei primi mesi di presidenza.
Su questa strada non cambierà lo schema della fine del secolo scorso con il sostegno Usa ai regimi "brutti, sporchi e cattivi" purché in grado di coprire gli interessi commerciali statunitensi e le aspirazioni geopolitiche soprattutto in tempi di ritorno della Russia in Medio Oriente e dell'affacciarsi della potenza cinese sui mercati anche di questi Paesi. Uno schema che però, senza chiarimenti sui legami oscuri, taglio definitivo di ogni ambiguità e pretese di responsabilità, ha portato al 2001. Quando alla Casa Bianca c'era un repubblicano che fino al giorno prima aveva trattato accordi commerciali con i talebani afgani e tollerato gli affari petroliferi della sua famiglia con quelli arabi e anche con quelli della famiglia Bin Laden. Del resto, come si ricorda qui
... i Paesi del Golfo detengono ancora il 48 per cento delle risorse globali provate di petrolio e il 43 per cento di quelle di gas. Quanto alla finanza, nelle casseforti dei petromonarchi galleggiano imponenti ricchezze di matrice energetica, da cui economie occidentali in drammatico affanno non possono prescindere. Soldi pesanti per la City e per Wall Street.
Per stare ai fondi sovrani, quelli della Penisola arabica (gestiti in prima linea da Arabia Saudita, Emirati arabi uniti, Kuwait e Qatar) valgono il 35 per cento degli omologhi asset mondiali. (Umberto De Giovannangeli, L'Huffington Post)
Cartina pubblicata su http://www.limesonline.com/trump-arabia-saudita-terrorismo-iran-notizie-mondo-oggi-22-maggio/98779 |
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