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Nel Paese delle fate e dei... Draghi

Il "fu" - nel senso politico di premier - Matteo Renzi rivendica in sostanza errori di cuore, comunicazione e intercettazione dei trend nazionali e generazionali. Errori?
Quali errori, insiste l'ex, ma solo grandi riforme purtroppo ( dice lui) non comprese dal Paese


"Vede, il Pd potrebbe vantarsi di un Jobs act votato dalla sinistra, di unioni civili votate dai cattolici, della legge sul caporalato e del miliardo e otto stanziato per la povertà, degli oltre 17 miliardi di recupero dalla lotta all' evasione, dell' abbassamento delle tasse. Invece i nostri votano in Parlamento, e tacciono nel Paese, anche sulle cose più positive".
Non starà qui a snocciolare la propaganda, visto che lo ha fatto ad ogni ora del giorno e della notte in tv e non le è servito, non le pare?
"Quella che lei chiama propaganda sono riforme che hanno aiutato un pezzo di Paese a vivere meglio. Non ci hanno fatto vincere? Ok, ma sono fiero di averle fatte e quei 13 milioni di voti raccolti al referendum sono un patrimonio di speranza per il futuro". (dall'intervista di Renzi a Mauro de La Repubblica il 15 gennaio 2017)
Tutto fatto bene, dunque. Eccola l'autocritica di Renzi:
Vediamo gli errori dell' oste, prima: qual è stato il più grave?"Non aver colto il valore politico del referendum. Mi sono illuso che si votasse su province, Cnel, regioni. Errore clamoroso. In questo clima la parola riforma è suonata vuota, meccanica, artificiale. Nel 2014 il Paese sapeva di essere a rischio Grecia, l' efficienza aveva presa, funzionava perché serviva. Tre anni dopo avrei dovuto metterci più cuore, più valori, più ideali. Insomma, meno efficienza e più qualità"
Il riferimento implicito è che basta metterci più cuore, comunicare di più (diceva la stessa cosa Berlusconi) e meglio, spruzzare un po' di valori e ideali (di sinistra, renziana) e il gioco è fatto: Renzi può tornare a guidare la nazione dal futuro fulgido.
Eppure il guaio è proprio qui: il futuro. Non tanto lontano, quello quasi immediato, dietro l'angolo: la metà del 2017, al massimo il 2018.
Perché?
La spiegazione è abbastanza semplice: la ripresa, quella mondiale e in parte europea, accenna a farsi sentire: sul finire dello scorso anno  l'Eurozona aveva denunciato un incremento dell'inflazione tra lo 0 e il + 0,4%. Secondo Standard & Poors dovrebbe accelerare ancora e forse arrivare a +1,5% a fine marzo e senza esagerare, fermarsi a un +1% a fine anno con la Germania di nuovo locomotiva (più lenta di un tempo) a +1,7%. Sempre al netto di crisi politiche e militari improvvise, Brexit , effetto Trump e quant'altro per gli Usa la previsione di crescita  sul Pil 2017 è  al rialzo da +2,1% a +2,4% de anche  il Pil 2018 previsto da S&P in ascesa dal 2,2% a 2,9%.
E l'Italia? Abbiamo il nostro immenso debito che è ancora più immenso, in tre anni è riuscito a limarsi solo per mezzo punto di Pil, circa 8 mld. Secondo Prometeia il debito aumenterà rispetto a fine 2016 da 132,2% a 133,4% del Pil e cifre più desolanti non potrebbero essere per dimostrare il fallimento della spending review senza che, peraltro, le politiche (renziane, ma anche un po' di Letta e perfino di Monti) di sola spending abbiano sortito un qualche effetto.
Non va dimenticato che nel 2012 abbiamo sottoscritto l'adesione al Fiscal Compact il quale prevede per i paesi con un rapporto tra debito e Pil oltrer il 60%, l’obbligo di ridurre il rapporto di almeno 1/20esimo all’anno. Il che, in teoria, costringerebbe l'Italia a manovre da 40-50 mld all'anno per vent'anni. Un suicidio, anche se, qualora non si riuscisse a tagliare abbastanza il debito (che è il numeratore, basterebbe alzare il Pil (il numeratore). Basterebbe, ma come abbiamo visto non ce la si fa.

Guardate qui la tabella interattiva di Reuter per capire come e dove si può intervenire.

Se su questo versante le nubi si accumulano e l'Europa ha sempre più dubbi sull'Italia (il caso banche è esemplare di ciò che non si fa e dei santuari che non si vogliono toccare). Ma non è il peggio. Perché nel Paese che crede alle fate bisogna anche fare i conti con i... Draghi. Ovvero il presidente, italiano, della banca centrale europea (Bce). Il quale, visto che la ripresa stenta e il quadro internazionale segna ulteriori rallentamenti e zone d'incertezza (la solita Brexit, poi Trump, il terrorismo, possibili guerre locali, ha allungato il Qe continuando ad acquistare titoli. Ma la fine del programma, anche per le pressioni tedesche, non è lontano, oppure sì: doveva concludersi con 60 mld di acquisti al mese, a settembre del 2016, invece prosegue con 80 mld di valore corrisposto ogni 30 giorni. I risparmiatori tedeschi e la redditività di banche e assicurazioni, con tassi in negativo, soffrono. Per questo le pressioni su Draghi si accentuano, anche in vista del voto di settembre in Germania. Se il presidente fosse costretto a cedere per l'Italia sarebbe il disastro: senza crescita consistente, senza riduzione del debito, senza spending review e politiche espansive negli anni buoni, con il "tapering" (il rientro del programma di acquisti di titoli di Stato), l'impatto sul debito pubblico sarebbe esiziale. Per noi ci sarebbe solo la "via d'uscita" - imposta - della Troika.
Per questo secondo l'economista Francesco Giavazzi, che parla del futuro prossimo italiano nel saggio raccolto in The world in 2017 e presentato da Nomisma, sostiene che l'estate prossima è il limite ultimo entro il quale continuare  a vive nel Paese delle... fate: la consapevolezza  che il Qe è prossimo alla fine sarebbe per Giavazzi "la fine di un'anestesia" con un risveglio brusco al quale si potrebbe "rispondere nell'unico modo possibile quando si è presi di sorpresa, alzando le tasse, come abbiamo fatto nel 2011"

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