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Mission accomplished. Forse


Ai presidenti americani piace evidentemente annunciare la fine della guerra in anticipo. E non porta bene, Ci provò George W. Bush il primo maggio del 2003 sulla portaerei Lincoln quando disse che la missione in Iraq era compiuta, come annunciava uno striscione alle sue spalle. Poi l'intervento occidentale finì solo 10 anni più tardi, il 18 dicembre del 2013.

Adesso tocca a Donald Trump ribadire che l'Isis è sconfitto in Iraq con la caduta del suo ultimo bastione, Baghuz e che gli americani possono andarsene. Non tutti per la verità, ne resteranno 400. A dire il vero, il presidente Usa un annuncio del genere l'aveva fatto più di un mese fa e anche prima quando aveva annunciato che avrebbe ritirato il contingente di 2 mila soldati. Poi con le dimissioni di James Mattis, segretario alla Difesa e del consigliere per la Siria Brett McGurk, fu costretto a prendere atto che il riportare a casa i suoi ragazzi avrebbe dato un pessimo segnale, avrebbe lasciato mani libere e campo alla Russia e soprattutto all'odiato Iran e la decisione avrebbe di fatto segnato il tradimento delle forze curde, il nucleo più forte dell'Sdf, di fatto i veri autori della sconfitta del Califfato.
Ora Trump ci riprova e sostiene che entro poche ore la Siria sarà libera dall'Isis, anche se a far da eco alle sue parole sono le voci di combattimenti ancora intensi, casa per casa, tunnel per tunnel nel centro del villaggio dove i miliziani hanno costruito l'ultima linea di difesa, facendosi scudo dei civili - compresi moglie e figli - e preparando trappole e imboscate contro le forze siro-arabo-curde. Proprio in una di queste imboscate è caduto, pochi giorni fa, anche il volontario italiano nelle file curde dell'Ypg, Lorenzo Orsetti. (nella foto a destra)

Da Baghuz sono riusciti a fuggire decine di migliaia di civili e altrettanti miliziani dell'Isis si sono arresi. Ma i più determinati, i più fanatici e disperati sono rimasti, sapendo che non hanno speranze di salvarsi. Forse anche per proteggere i vertici dell'Isis, sebbene non ci siano conferme che in trappola vi sia anche il capo dell'autoproclamato Califfato, Al Baghdadi.
Trump  in ogni caso ha fretta d'intestarsi un successo, quello che gli manca in patria. Tanta è la voglia che il presidente ha addirittura mostrato due cartine della Siria, una con il territorio controllato dall'Isis nel 2016 quando fu eletto e quella odierna con il piccolo circoletto attorno a Baghuz.
Il vero nodo però è cosa accadrà dopo "missione accomplished", considerati i timori degli esperti che temono una guerriglia diffusa dei fedeli dell'Isis che, secondo la Cia, fino a qualche mese fa potevano  essere, al netto delle tante vittime e degli arresi degli ultimi giorni attorno a Baghuz, fra i 20 e i 30 mila. Un quesito non di poco conto a partire dal destino di quell'area definita "Syraqi", ovvero la stabilità di due paesi... ad alta instabilità, divorati all'interno da feroci contrapposizioni religiose ed economiche, con un dittatore come Assad unico sopravvissuto nella zona e ora più forte, con il problema curdo ancora intatto anzi ingrossato dalla volontà turca di spazzarlo via, il tema dei foreign fighter che tornano e l'Occidente, l'Europa in questo caso, ancora divisa su come affrontarli, il ruolo di Russia e Iran da un lato e quello di Israele dall'altro. Solo per citarne i principali.

Il dossier dell'Ispi

Tre guerre civili

Il PodCast del New York Times

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