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Regeni, 4 mesi, un secolo dopo

Giulio Regeni, l'Egitto è in trappola. Quattro mesi dopo la sparizione (25 gennaio) del giovane ricercatore italiano al Cairo con tutta evidenza non sanno più cosa fare. La riprova arriva se perfino una star della tv di quel Paese perde le le staffe e manda a quel Paese l'Italia denunciando un complotto (ecco il video).
Nel giorno in cui lo spirito di piazza Tahir torna a farsi sentire con disordini e contestazioni del durissimo regime militare.

Il presidente-generale Al Sisi non riesce ad arginare e mettere il silenziatore al caso. Qualche giorno fa il governo è arrivato a denunciare la Reuters che aveva pubblicato un rapporto nel quale si confermava (le fonti sono dell'intelligence) che Regeni era stato prelevato dalla polizia segreta il giorno stesso della scomparsa. Il governo ha detto che si tratta di falsi e ha attaccato stampa e social. Ma mettere un freno anche alle pressioni internazionali  - Usa e Gran Bretagna - comincia d essere difficile. Così Al Sisi cerca di coprirsi le spalle con il cinismo francese di Hollande che , approfittando della crisi con l'Italia, è corso dal generale per chiudere diversi affari.
Il sito formiche.net spiega un po' i termini di questi rapporti rafforzati e nel quale il ruolo dei sauditi è determinante:
"Riad aveva già stanziato dei fondi all’Egitto nel febbraio del 2015 per l’acquisto di 24 jet Rafale, valore della commessa 5,2 miliardi di euro, forniti dalla Francia: a questa il Cairo ha affiancato le due classi Mistral che dovevano finire a Mosca, bloccate poi dalle sanzioni (altra commessa da 3 miliardi), e due corvette Gowind, sempre francesi (un altro miliardo), più, rivela Defense News, un sistema di comunicazione satellitare per un altro miliardo di euro"
Tuttavia il danno, d'immagine e non solo, per il Cairo è consistente. Da Washington e da altre capitali europee (con il silenzio francese, il perché lo si è visto) la pressione è forte, il volto brutale del regime è diventato una notizia globale e la faccia "perbene" dell'Egitto bastione contro il terrorismo è stata sfregiata. E questo, al di là dei problemi che adesso ha l'Italia per accentuare le ritorsioni che hanno ricadute inevitabili sugli interessi Roma-Cairo, mette Al Sisi in trappola. Il generale sa che l'arresto, le torture e la morte del ricercatore italiano sono opera di una delle sue polizie segrete e che, man mano che il tempo passa e con l'intervento americano, le possibilità che nuovi rapporti escano sono in aumento se non altro perché si sviluppa una corsa alla delazione da parte di branche dei diversi servizi e polizie del regime.
Cosa può fare il presidente-generale? Aprire due percorsi, insieme pericolosi e arditi, ma necessari perché le conseguenze negative del caso Regeni non si arresteranno troppo in fretta, nonostante gli sforzi del Cairo di allungare i tempi sperando nella rimozione. Il primo percorso è quello "democratico": aprire qualche porta all'opposizione moderata e più moderna, ai giovani occidentali, allo spirito di piazza Tahir, un'apertura almeno delle dimensioni che non compromettano il suo regime. Per completare questo primo percorso dovrebbe fermare gli squadroni della morte e concentrare, eventualmente, la spinta repressiva sugli ambienti vicini ai Fratelli musulmani, distanti per politica e cultura nonché obbiettivi dallo spirito "occidentale" e moderno di piazza Tahir.
Questa mossa sarebbe propedeutica al secondo percorso: rassegnarsi a "sacrificare" la branca responsabile del caso Regeni, consegnarla alla "piazza reale e mediatica" nazionale e internazionale, rafforzando e appoggiandosi alle polizie segrete concorrenti.
Altre strade Al Sisi non ne ha, da regime autoritario gli strumenti per muoversi in questa direzione non mancano, anche se non accettabili secondo i principi delle democrazie europee e anglosassoni. Ma tant'è, la via d'uscita dalla trappola è solo questa. E del resto era stata anticipata da alcune testate italiane a inizio aprile. Ecco qui quanto scriveva l'Huffington Post:
"...la verità si sta giocando tutta nella stanza del presidente al Sisi, e l’indiscrezione rilanciata da La Stampa sulla testa che verrà sacrificata – quella del generale Khaled Shalaby, responsabile del Dipartimento investigativo di Giza, la zona in cui Giulio è scomparso lo scorso 25 gennaio – trova diverse conferme a Roma e in Egitto. L’indecisione sulla svolta che potrebbe portare alla ricostruzione di una versione credibile su quello che è stato senza dubbio un delitto politico è rallentata solo da una serie di considerazioni che al Sisi sta facendo rispetto ai contraccolpi all’interno del sistema di sicurezza del Paese, dove è in corso da tempo un braccio di ferro tra i servizi segreti civili e quelli militari (prima di diventare presidente, questi ultimi dipendevano proprio da al Sisi). Ma una cosa è certa, dicono a Roma le fonti interpellate dall’Huffington Post:il regime del Cairo non ha intenzione di rompere i rapporti con l’Italia e una soluzione verrà trovata. D’altronde Shalaby era già stato salvato una volta per i capelli da una sentenza di condanna (incredibilmente sospesa) per aver picchiato e torturato a morte nel 2010 Khaled Said, giovane attivista dell’opposizione, nelle stanze della polizia di Alessandria. Il suo nome era già circolato dopo il ritrovamento del cadavere di Giulio Regeni, ma erano ancora i giorni in cui gli egiziani tentavano di accreditare una dopo l’altra versioni ridicole e inaccettabili sulla fine del ricercatore italiano: dalla rapina, al party omosessuale, all’incidente stradale".

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