La parola di moda nella destra, da decenni, in particolare dagli anni Ottanta di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, è "meno tasse" o "taglio delle tasse" che poi è quasi la stessa cosa. La ricetta più liberista (o liberale) guarda a una sempre minore imposizione fiscale per consentire - secondo la dottrina della scuola di Chicago -
di allargare la massa di denaro che resta in tasca alla gente che è quindi libera e stimolata a spendere di più. Mettendo in moto, facendo accelerare, di conseguenza, l'economia.
Oggi la versione più attuale è "flat tax", ovvero una sola aliquota, il più contenuta possibile, che consenta allo Stato di funzionare in modo essenziale, di assicurare i servizi minimi e un welfare ridotto all'osso - o sotto la soglia di praticabilità - anche qui con la convinzione che più soldi uno ha e maggiore sarà l'incentivo a spenderli e/o investirli.
A promuovere il concetto fu negli anni Ottanta un giovane economista della scuola di Chicago, Arthur Laffer secondo il quale
"... non prendendo tasse un governo non avrebbe profitti. Neanche prendendo il 100% di tasse avrebbe profitti, perché nessuno lavorerebbe, e ulteriori imposte massime farebbero solo aumentare il numero di persone che non vogliono lavorare". (Fondazione Einaudi)Laffer tradusse le sue idee in un grafico
"...per mostrare che da qualche parte tra l’estremo dell’assenza di tasse e il 100% di tasse c’è un punto in cui il governo massimizza il profitto. Partendo da imposte alte, la riduzione fiscale, insieme ad altre politiche per rafforzare il lato dell’offerta, possono aumentare l’efficienza economica e generare più entrate". (Fondazione Einaudi)
Donald Trump crede fermamente in questa impostazione e l'ha tradotta in una legge - nonostante gli studi che indicano un rapido peggioramento del deficit federale - dopo aver proposto la riforma radicale pochi mesi dopo la sua elezione (leggi qui). Il caposaldo trumpiano però è ben preciso e si rifà a Laffer e ai suoi epigoni: la riduzione delle tasse premia soprattutto i ceti più abbienti e risulta irrisoria se non nulla per chi guadagna meno. Il tutto sempre nell'ottica che chi più ha se paga meno tasse finisce per spendere maggiormente.
Oggi la parola flat tax o il taglio delle tasse in chiave reaganiana stanno cercando di vivere una nuova stagione, trascinati appunto dal modello scelto da Trump. Ma, in particolare la prima, a un più attento esame economico mostra i suoi limiti e la difficile applicabilità in Paesi che non siano piccoli paradisi fiscali o di recente ingresso nell'alveo democratico come quelli dell'est europeo. Se non altro perché il Pil pro capite più alto associato a un invecchiamento della popolazione che richiede livelli sempre più alti di Stato sociale e relative prestazioni finirebbero per mettere in crisi il modello ad aliquota unica.
Perché la Flat tax non funziona in Occidente (Da www.lavoce.info)
Oggi però a scuotere il panorama liberista (o liberale?), arriva una spavalda e mediaticamente potente ragazza di 29 anni, Alexandria Ocasio-Cortez, neo deputato a Washington, eletta nelle file Dem e appartenente all'ala radicale- socialista, ex cameriera ma con laurea in economia e relazioni internazionali a Boston, rullo compressore nel suo partito dove, nel 14° distretto di New York, ha battuto il campione Dem e ha stravinto al voto di Midterm.
Cosa ha fatto AOC (l'acronimo che ormai la distingue)? Ancor prima di mettere piede alla Camera, ha sostenuto che chi guadagna oltre 10 mln di dollari dovrebbe essere tassato almeno al 70% suscitando, com'è ovvio, un vespaio di polemiche e attacchi dalla destra e non solo.
Non bisogna dimenticare che fino a Reagan chi guadagnava oltre i 216 mila dollari pagava appunto una tassa fino al 70% e che, come ricorda The Guardian, oggi le 160 mila famiglie più abbienti d'America detengono circa il 90% della ricchezza nazionale.
Un'idea balzana, radicale e socialista, "sovietica" o peggio comunista quindi? Le accuse giocano su questo, ma l'uscita non è così assurda e provocatoria come potrebbe apparire a una prima vista. Così in aiuto a AOC arriva un premio Nobel, anzi più di uno: come ricorda Krugman uno dei massimi esperti mondiali di finanza, il Nobel Paul Diamond, ha sostenuto in un suo studio (con il collega esperto di disuguaglianza Emmanuel Suez) che l'aliquota massima ottimale dovrebbe essere del 73%. Ancora più in là vanno altro suoi colleghi, come Christina Romer, top macroeconomista ed ex capo del Council of Economic Advisers di Obama, per la quale si dovrebbe arrivare anche all'80%.
Secondo Krugman quindi l'uscita di AOC è tutt'altro che campata in aria - cosa ben diversa dalla reagonomics, di cui gli effetti positivi non sono mai stati provati - e l'attenzione si dovrebbe porre piuttosto sulle concrete entrate fiscali dei più ricchi e più tassati. E per provare che l'idea della massima tassazione ha generato - negli anni dell'applicazione prima, appunto, di Reagan - un aumento del pil pro capite ben maggiore rispetto ai periodi di taglio delle tasse.
In sostanza i critici del taglio delle tasse e sostenitori della massima pressione fiscale sui redditi più elevati sostengono che, andando nella direzione delle tesi sostenute da AOC ma ancora di più basandosi sugli studi degli economisti, s'imboccherebbe la via di una riduzione della crescente (in questi anni) disuguaglianza che ha portato negli anni della Grande Recessione alla pratica scomparsa o marginalizzazione della classe media.
Leggere qui Thomas Piketty e Emmanuel Suez
Quanto potrebbe fornire una riforma come quella suggerita da AOC
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