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Venezuela, oil's game


L'ex presidente dell'Uruguay, il "mitico" Pepe Mujica lo scorso anno a Venezia - fu accolto al festival dove fu presentato un documentario a, lui dedicato e diretta da Emir Kusturica-, parlando del Venezuela individuò il colpevole della sua crisi: il petrolio.
Proprio l'oro nero che è la fortuna e la principale ricchezza del Paese, per Mujica è anche la sua disgrazia: "Per il petrolio - disse, i venezuelani hanno abbandonato le campagne, importano tutto e hanno perfino smesso di produrre il loro ottimo rhum a favore del whisky Usa".
Non sarà una lettura completa per capire la crisi in cui sta sprofondando da almeno tre anni il Paese sudamericano, però c'è molto del vero.
Intanto i fatti delle ultime ore: il leader dell'opposizione in Parlamento (istituzione di fatto però esautorata dalla Assemblea nazionale fedele al presidente Nicolas Maduro), Juan Guaidò si è proclamato presidente e la sua mossa è stata appoggiata (non senza qualche sospetto di una decisione concordata)  dal riconoscimento del presidente Usa Donald Trump - POLITICO spiega la posizione con un titolo ironico "Trump trova il dittatore che non gli piace" -  , dal Canada e dalla Colombia cui su sono aggiunti il Brasile di Bolsonaro e altri stati del Sud e del Centro America, ma non il Messico. Dal canto suo Maduro ha denunciato il golpe, ha chiamato il popolo alla mobilitazione  - ma sono già alcuni giorni che si susseguono gli scontri di piazza con la polizia e fra le opposte fazioni ( 14 morti)
- e di fatto ha chiesto/imposto ai diplomatici americani di abbandonare il Paese entro 72 ore.
Come tutti i commentatori mettono in risalto fondamentale è il ruolo dell'esercito, fedele finora all'impronta "chavezista", popolare e di sinistra. Secondo alcune fonti Guaidò e l'opposizione, con il supporto Usa, avrebbero garantito l'impunità a chi si ribella a Maduro.
Il Venezuela sta sprofondando in una crisi economica senza precedenti: almeno il 90% della popolazione vivrebbe in povertà, i bambini muoiono di fame e malattie perché mancano cibo e farmaci, l'inflazione ha superato da tempo l'astronomica percentuale del milione per cento, un mese di salario basta appena per un pasto al fast food. Già due milioni e mezzo di venezuelani hanno abbandonato il Paese in questi anni  e hanno raggiunto gli Stati vicini (il Brasile in particolare) o hanno raggiunto altri Paesi del Centro America  inserendosi in quella lunga marcia verso gli Usa che Trump vuole bloccare con la costruzione del muro al confine.
Eppure il Venezuela è un Paese ricchissimo di petrolio. Le sue riserve sono stimate fra le maggiori al mondo, 300 mld di barili senza contare che alla foce dell'Orinoco esisterebbe un giacimento di 1300 mld di barili anche se si tratta del non convenzionale petrolio extrapesante, simile a quello dello shale oil. Il problema è che dopo gli anni felici di Hugo Chavez, che usò a mani basse i proventi petroliferi per aiutare le fasce più deboli e sostenere le politiche sociali - grazie anche alla compagnia di Stato Pdvsa e alla revisione degli accordi, in senso più favorevole al governo, con le società estere, soprattutto americane - la gestione fallimentare della stessa Pdvsa, i mancati investimenti strutturali, i prezzi del greggio in discesa, la corruzione e l'incapacità del successore di Chavez, hanno fatto sì che  la produzione sia crollata da 3 milioni a poco più di uno dal 2014 a oggi e che addirittura il Venezuela sia costretto a importare il greggio.
La compagnia petrolifera di Stato, Petroleos de Venezuela (Pdvsa), dalla fine degli anni Novanta è stata usata come strumento per finanziare le politiche populiste del regime di Hugo Chavez prima e del suo successore Nicolas Maduro poi, senza alcun riguardo per i più banali criteri di redditività ed efficienza gestionale. Basti pensare che il Venezuela, costretto a importare benzina – e recentemente persino petrolio, per diluire il greggio extra pesado – praticamente regala il pieno di carburante ai suoi cittadini e attraverso l’alleanza Petrocaribe invia greggio a prezzi stracciati a Cuba e ad altri 16 paesi dell’area. (Treccani, 2015)
La questione, come si vede, prima che politica è economica, molto economica. Le riserve petrolifere e la possibilità di rompere il controllo statalista alimenta molti appetiti, in primis quelli degli Usa, del resto del Sud America e delle grandi potenze, Russia e Cina oltre a Ira, Turchia e naturalmente Cuba. Non è un caso che in questo momento il mondo si divida  davanti al colpo di mano - perché, va detto, di questo si tratta, nel momento in cui il leader di una assemblea in cui è maggioritario si proclama presidente in assenza di qualsiasi quadro di riferimento legislativo, anche se tutto l'assetto istituzionale di uno Stato è messo in discussione - con Trump che rispolvera la dottrina Monroe  e forse anche la concezione dell'operazione Condor di kissingeriana memoria e si trascina dietro perfino l'odiata Ue ma anche in modo molto sfumato la Cina, che sul Sud America conta molto per i suoi affari, a partire dall'Argentina, mentre la Russia appoggia ancora Maduro. 
Il problema adesso però è quello che sottolinea la rivista americana The Atlantic:
La mossa provocatoria del presidente Donald Trump nel riconoscere Juan Guaidó come leader legittimo del Venezuela è ricca di simbolismo, ma solleva la domanda: quale sarà la prossima?
Infatti bisogna vedere fin dove e con che mezzi e azioni può/vuole spingersi Trump: Bolton ha detto che i diplomatici non se ne andranno e forse spera in un assedio e magari blitz che possa ricordare la presa degli ostaggi a Teheran fra il 1979 e l'81. Ma se non accadesse cosa farà Trump tenendo presente che si tratta comunque di una posizione rischiosa?
David Bosco, professore associato alla Scuola di Studi Globali e Internazionali dell'Indiana University, ha affermato che la decisione degli Stati Uniti di riconoscere Guaidó come presidente legittimo è una mossa insolita che alcuni studiosi di legge considererebbero potenzialmente "rischiosa". "I governi cercano in gran parte di evitare di fare questo genere di cose", ha detto Bosco. "Gli stati cercano semplicemente di riconoscere chiunque affermi di essere il governo e chiunque abbia un controllo effettivo del paese". (The Washington Post)
Attaccherà con l'esercito, imporrà altre sanzioni - oltre a quelle già imposte di recente e che hanno acuito strumentalmente la crisi - forzerà ancora di più le forze armate venezuelane (che però sembrano ancora a fianco del governo) o premerà per un incidente alle frontiere con Brasile e Colombia, dove i leader di estrema destra non vedono l'ora di regolare i conti con il vicino a rendersi ancora più meritevoli agli occhi di Washington? Certo è che se i militari stanno con Maduro sarà difficile che la pressione internazionale, reattiva nei tempi brevi ma meno determinata e coesa su politiche di lungo corso peraltro non condivise appieno, possa averla vinta. Forse l'unica alternativa, a meno di un collasso improvviso legato alla guerra civile, è una soluzione su tempi più lunghi affidata ai militari i quali, invece di cedere agli Stati Uniti e ai Paesi vicini, trovino fra di essi o nel partito di governo una personalità popolare e capace a cui Maduro potrebbe rassegnarsi a cedere il potere. Anche perché non va dimenticato che l'opposizione venezuelana è sempre stata molto divisa ed è tutto da dimostrare che Guaidò potrà tenerla unita come è accaduto finora.

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