Per capire quanto possa essere vera la svolta italiana più di 20 anni dopo Mani Pulite e la vittoria della Forza Italia di Silvio Berlusconi, più che le analisi su Movimento Cinque Stelle
o la nuova Lega di Matteo Salvini - non più territoriale, sovranista, nazionalista e abbastanza razzista nonché vicina all'estrema destra xenofoba - è interessante osservare le reazioni attonite e rabbiose dello stesso Berlusconi - in silenzio per 48 ore o quasi e imbarazzato nelle poche dichiarazioni rese - e di Matteo Renzi - rabbioso, vendicativo, arrogante come al solito, ma anche vendicativo e pronto a trascinare il partito in una sorta di "muoia Sansone e tutti i Filistei" - di fronte alla sconfitta dei loro partiti molto personali.
La realtà, al di là delle valutazioni sulla capacità di governo di due movimenti ribellisti, è che per la prima volta non dal '92, bensì dal dopoguerra, viene messo in discussione il sistema di relazioni, poteri segreti, influenze, affari consolidato nelle maggioranze e nelle opposizioni, quest'ultime per decenni cristallizzate nella dimensione del Partito Comunista, bloccato nel governo effettivo almeno fino all'89, dal Muro della Guerra Fredda e dai protocolli segreti stilati prima del 1948 e che hanno sempre fatto dell'Italia un Paese a sovranità limitata.
Ora tutto questo può ribaltarsi. Tra ingenuità, incapacità ed errori i due movimenti che hanno vinto sono fuori da questi schemi: si può sospettare una ammirazione per Putin, Washington Post dasre una opportunità ai populisti.
magari un appoggio al sistema di influenze sui social attraverso le fake news, ma niente a che fare con i legami, le consorterie e le caste consolidate a cavallo fra i due secoli. Forse i clan, segreti o palesi riusciranno a infiltrarsi, a condizionare nei prossimi mesi Lega o M5S, ma per ora l'onda della protesta che ha portato al voto e le loro espressioni parlamentari ne sono esenti. La Lega ha maggiori difficoltà perché è imprigionata nel centrodestra e Berlusconi ha cominciato a lanciare segnali precisi, i Cinque Stelle dal canto loro sono più liberi, hanno più parlamentari però per andare avanti e cominciare a fare qualche scelta hanno bisogno dei voti Dem. Renzi permettendo, naturalmente, visto che il segretario "dimissionario" ha messo sul tavolo, anche lui i suoi "avvertimenti". L'establishment e la sua espressione pratica , la burocrazia, non sono disposti a farsi mettere da parte sul serio - dopo decenni di finte - ma stavolta hanno paura. E cercano, cercheranno di riorganizzarsi. Oppure, cone sostiene il
I segnali, anche in questo senso, non mancano. In primo luogo lo si capisce dall'emarginazione di Matteo Renzi. Nessuno sembra più disposto a puntare su di lui e sulle sue narrazioni: non Confindustria, nè il suo partito - eccezione fatta per i fedelissimi, ma sono sempre meno - non l'establishment in senso generale.
Quando perfino il ministro "tecnico" Carlo Calenda, portavoce di una linea liberal e blairiana ("basta con il blairismo di maniera" ha detto facendo pensare che lui preferisca il blairismo tout court e ribadendo di intendersene di èlite, neppure volesse prepararsi a fare il Macron italiano), si fa coinvolgere dal premier Gentiloni - giubilato in diretta televisiva in giorno delle dimissioni annunciate dal solito segretario Pd - e fa capire di voler guidare i renziani oltre la fedeltà al leader, il destino del giovane di Rignano è segnato. Come quello di Berlusconi che deve affrontare la scalata ostile della Lega, teme come il diavolo un'intesa anche solo su pochi punti o sulla legge elettorale tra Salvini e Di Maio e constata di non avere un erede designato, tocca con mano il viale del tramonto. Chi lo sa che il destino simile fra i due leader non li porti a incontrarsi su un fantomatico fronte dei moderati italiani, anche se potrebbe non essere più il tempo.
Allora élite in stallo o sulla difensiva, ma quella che può essere una svolta interessante e forse necessaria in Italia potrebbe anche rivelarsi un limite quando si esce dalla dimensione provinciale e ci si proietta nell'Europa globalizzata e a trazione franco-tedesca.
I prossimi mesi sono quelli centrali e decisivi per la Ue del 2020 e oltre, per l'Unione post Brexit e per la revisione dei Trattati: lontana dai clan delle superburocrazie, l'Italia che non è mai stata in prima fila nella rivendicazione delle sue esigenze e nelle sua presenza di peso nei gangli della Ue, senza un governo forte e preparato alle spalle rischia - anzi ha la pratica certezza - dell'emarginazione di doversi accontentare delle briciole. E alla testa della Bce il prossimo anno non ci sarà più Mario Draghi, magari pronto per il Quirinale nel 2022 e, chi lo sa, dopo un passaggio a palazzo Chigi per risolvere ancora una volta il nodo irrisolto dei conti che non tornano. Perché sarà ben difficile che Di Maio o Salvini, magari con la spinta di una recessione che potrebbe affacciarsi presto, riescano a sistemare il debito pubblico, a rilanciare occupazione e lavoro - diritti compresi -, a rilanciare i redditi bassi e medi e a risolvere le diseguaglianze crescenti con ricette simil-liberiste e per di più confuse.
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