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Harvey e Kim, Maria e Donald

 

Questione di uragani, di disastri attesi, annunciati e, purtroppo, concretizzati. Washington e Pyongyang sono drammaticamente sulla rotta di collisione. A parole, per ora, senza contare le prove missilistiche  del piccolo dittatore nordcoreano e le muscolari esercitazioni  di Usa, Corea del Sud e Giappone.
Siamo agli insulti ("vecchio rimbambito, cane rabbioso" il presidente americano, mentre per quest'ultimo Kim Jong un è "chiaramente un pazzo") e alla minaccia nordcoreana di testare un missile con testata all'idrogeno direttamente nel Pacifico, ben oltre il raggio d'azione che comprende Guam, quasi in vista - verrebbe da dire - delle coste americane.
Il duello verbale è al calor bianco, difficile andare oltre, le esibizioni di forza potrebbero ancora salire ma stavolta c'è da capire fino a dove Washington, Trump e i suoi generali possono giudicare che si è raggiunta la soglia oltre la quale può scattare la rappresaglia. Quella annunciata dallo stesso Trump all'Onu quando ha parlato della possibilità di distruggere completamente la Corea del Nord
Dopo i mesi degli ordini esecutivi, delle prove di forza interne con il "suo" partito sulla cancellazione dell'Obamacare o sul muro con il Messico e o ancora sul "Muslim ban" bocciato da diversi tribunali e, nell'ultima versione, approvato dalla Corte Suprema, dopo queste performance per lo più fallimentari, il neopresidente è adesso di fronte alla prova più dura. Quella in cui servirebbero nervi saldi e solida capacità negoziale, proprio due doti che a Trump fanno difetto.  E certo non aiuta la guerra verbale che il presidente lancia all'avversario del momento attraverso i suoi tweet sanguinosi.

Il riepilogo

Ma la partita per Trump è complicata anche da un altro uragano, non più Kim, bensì Maria che viene dopo Harvey. Per gli Usa e l'amministrazione federale l'uragano che ha sconvolto il sud del Paese ha presentato un conto salato: 47 morti, 7,9 mld di dollari (come Sally e Katrina), un impatto dello 0,08% sul Pil, una cifra rilevante che si correla in modo diretto alle politiche ambientali che, fra l'altro, sono invise, nella loro accezione protettiva e resistente alle dinamiche espansionistiche dell'industria, alla nuova amministrazione. Il presidente promette soldi, anche personali, ma si vede a occhio nudo il suo imbarazzo riconfermato dalla pervicacia con cui ha inteso sottolineare che non imputa uragani di questa potenza ai cambiamenti climatici. Ma le difficoltà del presidente e del Partito Repubblicano sono palesi: quest'ultimo si spacca sui tagli alle agenzie  imposti dal governo federale, mentre il primo - al di là di una donazione personale - sembra più preoccupato di ridare al Sud e in particolare alla elettoralmente importante Florida, una spinta emotiva di reazione che stilare un programma serio e scientifico di ricostruzione ma in particolare di prevenzione. Sotto questo punto di vista - considerare gli uragani, anche potenti come non mai questi, ma comunque come eventi staccati dai cambiamenti climatici in corso - perfino l'abbigliamento della first lady Melania costituisce un preciso segnale.
Sui destini di Trump avranno più presa gli uragani naturali o quelli  del piccolo dittatore di Pyongyang?

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