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Ritorno ad Hanoi... Ha(i)noi!

Breaking news. Nella notte sono falliti i colloqui ad Hanoi e il presidente americano è tornato negli Usa con uno strappo anche clamoroso. "A volte devi anche camminare" ha detto a caldo Trump. Cosa è successo (NyTimes) e quale sarà l'evoluzione ( Washington Post). Ma forse così si è salvato (POLITICO)
* * *
Non è solo un caso e non è indolore per gli Usa tornare ad Hanoi. Non che gli americani non l'abbiano mai fatto - uomini d'affari e relazioni politiche sono ormai consuetudine da queste parti, nonostante il Vietnam resti ancora un Paese comunista - ma da ora in avanti Hanoi potrebbe
passare nei libri di storia dall'ex capitale del Nord vittoriosa il 30 aprile del 1975 a sede di un accordo - o comunque una tappa fondamentale - sulla via dell'altrettanto storica pace tra Usa e Corea del Nord dopo 66 anni. Non per nulla il primo ministro vietnamita  Nguyen Xuan Phuc ha  detto che il suo Paese dimostrerà i benefici della pace, della riconciliazione e della liberalizzazione del mercato.
La partita è molto delicata sia per il dittatore nordcoreano Kim Jong Un e ancora di più per il presidente Usa Donald Trump. Il primo, che pure non ha problemi di dover rispondere a una pubblica opinione, sa che la scommessa nucleare, condita di minacce e provocazione, ha ormai esaurito la sua fase propulsiva: o si trova un compromesso oppure non potrà che riprendere con i test e la propaganda, ma stavolta con meno efficacia. Senza contare che il suo Paese, già alle prese con sanzioni Onu e un isolamento commerciale severi, perderebbe l'occasione di ottenere una minima apertura alle merci del resto del mondo (e soprattutto della Corea del Sud) con risultati quindi concreti da presentare a una popolazione stremata.
Trump, dal canto suo, insegue dallo scorso anno, in occasione del primo summit il 12 giugno a Singapore, il sogno di un successo diplomatico che potrebbe rilanciare l'immagine deteriorata di un'America in ritirata dai principali scenari e di fatto senza una politica estera.
Per ora è cambiato molto più il clima fra le due Coree rispetto ai rapporti tra Usa e Pyongyang: lo scorso anno fu soprattutto un'operazione d'immagine (per Trump) con pochi risultati concreti e il punto centrale è almeno trovare una definizione univoca sul termine denuclearizzazione che a Washington è inteso come abbandono totale del programma atomico da parte del regime, mentre invece Kim Jong Un lo vede come un abbandono o comunque un annullamento della minaccia dell'ombrello nucleare che difende nella zona la Corea del Sud e il Giappone (ISPI).
Per il momento conviene soffermarsi sui (pochi) risultati scaturiti da Singapore: Pyongyang ha rispettato la moratoria agli esperimenti, ma i processi di ricerca e arricchimento dell'uranio non si sono fermati del tutto, al massimo rallentati nei siti rimasti segreti e ben nascosti (ma non abbastanza per l'intelligence Usa). Kim però condiziona i passi in avanti a concessioni  da parte di Trump.
"Come ricordato a gennaio da Kim Jong Un nel suo consueto discorso di Capodanno, spetta ora agli Stati Uniti elargire delle concessioni. In risposta, la Corea del Nord potrebbe, per esempio, far corrispondere la chiusura del sito di Yongbyon, simbolo del suo programma nucleare. Kim avrebbe infatti espresso, prima al presidente sudcoreano Moon Jae-in, poi tramite i suoi portavoce all’inviato di Trump, Stephen Biegun, la volontà di smantellare permanentemente il sito a fronte appunto di “misure corrispondenti” da parte statunitense. Yongbyon è l’unica fonte di plutonio per alimentare il nucleare nordcoreano e si ritiene sia anche la sola fonte di trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno che serve per realizzare la fusione nucleare e per la produzione di ordigni termonucleari. Non sarebbe, però, l’unico sito in cui il regime arricchisce l’uranio. Chiudere Yongbyon non ridurrebbe infatti le dimensioni attuali dell’arsenale nordcoreano, anche se una completa e verificabile distruzione delle centrifughe rallenterebbe il ritmo di produzione di ordigni nucleari". (ISPI)

Dal canto suo Washington ha fermato le sue esercitazioni militari congiunte nell'area e ciò non ha mancato di suscitare aspre critiche a Trump da parte dei militari e dei gruppi conservatori, favorevoli a un aumento della pressione sul dittatore (CNN). Però Trump stavolta deve e vuole ottenere di più, e non sarà facile per quanto affermato poco sopra nell'analisi dell'ISPI.
Al di là di mosse effettive che dimostrino un abbandono della politica nucleare, da escludere a breve e secondo parametri eclatanti, per Trump il problema è un altro: il presidente (che rivendica il valore della sua "teoria dei matti" ) ha sempre giocato la carta economica, sognando che compagnie americane possano andare a investire anche al Nord, per il quale ha pronosticato, in questo caso, tassi di sviluppo altissimi. L'ostacolo però il presidente ce l'ha in casa laddove nel 2017 è stata varata una legge che proibisce i commerci con i Paesi che non rispettano i diritti umani, legge  che aveva come obiettivo l'Iran, la Russia e appunto la Corea del Nord. Una legge che solo il Congresso e non il presidente può abrogare. Così se Trump ottenesse anche un maggior impegno allo smantellamento del sistema nucleare e di ricerca di Pyongyang, non potrebbe concedere molto a Kim Jong Un sul piano economico (ed è su questo piano che il dittatore vuole risultati concreti) visto che ben difficilmente nella Corea del Nord si potrebbe assistere a progressi sul rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali (POLITICO). E del resto a Washington non sono pochi coloro che sollevano perplessità su qualche risultati in questo senso anche perché lo stesso Trump, come ha fatto anche per la Russia, non sembra voler imprimere maggior peso su questa contropartita da gettare sul tavolo della trattativa.
Sprezzante e decisamente critico, al riguardo, il giudizio di Jay Lefkowitz, inviato speciale per i diritti umani in Corea sotto l'amministrazione di George W. Bush
“We lose a great opportunity if we don’t focus on human rights as part of our arsenal on North Korea,” said Jay Lefkowitz, who served as special envoy for human rights in North Korea during the George W. Bush administration — a congressionally mandated post for which the Trump administration has yet to nominate anyone. “The irony is, of all the things he’s done in his presidency, the thing that looked the most promising was his North Korea policy during the first 18 months, where he kept both North Korea and China really off balance. And then literally, within the scope of a few hours in Singapore, we took a half dozen giant steps backward.” (Eliana Johnson e Ruarì Arrieta-Kenna su POLITICO)
Anche per questo è tutt'altro che peregrina l'ipotesi che anche i colloqui di Hanoi finiscano in un insuccesso, in particolare di Trump. Nonostante i prevedibili tweet che parleranno di  "successo incredibile" o magari riprenderanno il tema del Nobel per la pace.

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