Passa ai contenuti principali

ExtremIsis, il ritorno


Isis sconfitto, forse sì, forse no. Anzi probabilmente proprio no. Colpito a fondo, ha lasciato sul terreno decine di migliaia di militanti, le sue strutture militari ma soprattutto finanziarie sono state compromesse, i suoi santuari e la sua leadership  in Siria e in Iraq spazzate via dagli attacchi aerei di Usa e Russia - e dai rispettivi alleati - e sul terreno dalle forze curde in primo luogo, appoggiati dalle milizie sciite.
Eppure... eppure lo Stato islamico si sta riformando, anche dopo il gran ritorno - o almeno il tentativo di rientrare - in Europa da parte dei foreign fighters, i giovani nati nel Vecchio Continente ma assimilati dalla dottrina di Daesh.
Ad accendere le luci su questa rinascita è stato paradossalmente il presidente americano Donald Trump che il 21 dicembre scorso ha annunciato, a sorpresa, il ritiro del contingente di  2 mila soldati dalla Siria. 
"We have won against ISIS. We've beaten them and we've beaten them badly. We've taken back the land and now it's time for our troops to come back home." (Donald Trump, Twitter)
Una scelta (che ha portato alle dimissioni del Segretario alla Difesa James Mattis) legata alla sua politica di non coinvolgimento Usa nei teatri di crisi. Ma anche un annuncio subito contestato non solo dal Pentagono, da tutti gli esperti ma perfino dal Dipartimento di Stato e dal Consigliere per la Sicurezza John Bolton che alla fine l'ha avuta vinta, per ora, sul presidente, spiegando che il ritiro avverrà più lentamente rispetto alle poche settimane concesse da Trump e rassicurando al tempo stesso i curdi, minacciati dall'offensiva turca senza lo scudo Usa. Posizione condivisa dal segretario di Stato Mike Pompeo che ha difeso la presenza Usa e un distacco lento con la motivazione che va contenuta la presenza dell'Iran nell'area. Così per ora i soldati americani non solo sono partiti, ma addirittura sono saliti a 3 mila: il migliaio in più infatti deve consentire un ritiro ordinato. Fra tre o quattro mesi, almeno. Intanto anche dal Senato, controllato dai Repubblicani, è arrivata una mozione fortemente critica con gli annunci del ritiro da Siria e Afghanistan.
In ogni caso i segnali di un tentativo di ricostituzione dell'Isis sono diversi e convergenti. Nei prossimi giorni uscirà un rapporto del Pentagono secondo cui in sei mesi, un anno dopo il ritiro Usa, Daesh potrebbe rioccupare le zone siriane da cui è stato scacciato. "Forse anche meno di sei mesi" hanno aggiunto le fonti interne. 
Tutti allarmati, dunque, a partire da Brett McGurk, l'ex inviato della coalizione anti-ISIS che si è dimesso dopo l'annuncio di Trump. Per McGurk, che ha scritto per il Washington Post, la decisione della Casa Bianca addirittura rischia di dare una "nuova vita" all'Isis in Siria che lì è/era praticamente morto. L'ex inviato, tra l'altro ha accusato Trump di aver agito senza consultare gli alleati. Oltretutto per McGurk Trump avrebbe deciso dopo una telefonata con il leader turco Erdogan il quale gli avrebbe promesso di contrastare in profondità la presenza iraniana, cosa che per l'ex inviato non è possibile perché richiederebbe oltre che un impiego massiccio di forze, un sostegno logistico che solo gli americani potrebbero fornire alle forze di Ankara le quali nelle zone di confine tolte ai curdi, si affidano a miliziani estremisti sunniti, spesso infiltrati con facilità da Al Qaeda, a sua volta avversaria dell'Isis. Senza contare, in questo quadro, il nodo curdo - vero obbiettivo di Erdogan - ai quali gli americani hanno comunque garantito una protezione e la conseguenza di un riallineamento di alleati locali verso Bashar-al-Assad, inviso agli Stati Uniti che puntavano alla sua cacciata. Non dimenticando, inoltre, il significato di un abbandono Usa per le milizie SDF formate da arabi, curdi e cristiani, asse della guerra anti Isis alla quale hanno pagato un tributo di sangue ingente.
Un guazzabuglio frutto di superficialità e decisioni affrettate, non ponderate e non studiate, secondo tutti gli esperti e, sottovoce, anche il Pentagono.

La Siria non è tuttavia il solo punto che preoccupa gli analisti e i vertici militari della coalizione anti Isis. L'altro focus è l'Iraq. Un recente rapporto del Center for Strategic e International Studies ( Csis)
 rivela i punti deboli dei quali gli uomini del Califfato stanno cercando di approfittare per riorganizzarsi. Gli attacchi contro gli obbiettivi governativi  sono aumentati  dal 2017 al 2018, a Kirkuk addirittura raddoppiati; in più ad aiutare indirettamente le formazioni terroristiche è l'instabilità del governo iracheno, i ritardi nella ricostruzione, la stagnazione, le aree nelle quali la presenza governativa è aleatoria o del tutto assente; inoltre la massiccia presenza delle milizie sciite accentua i contrasti con la parte sunnita favorendo quindi il reclutamento per il Califfato. In quest'ultimo caso va sottolineato che la presenza di attacchi soprattutto nella zona di Kirkuk evidenzia i problemi del governo per controllare l'area tolta ai curdi iracheni (anche con l'aiuto turco), mentre tra gli esperti - e lo stesso Csis - si evidenzia la necessità di ricorrere di nuovo all'apporto dei Peshmerga in affiancamento alle forze di Baghdad. 
Soldatesse curde
Ma anche qui il processo di accordo - che deve anche vincere una divaricazione interna al fronte curdo tra il Partito Democratico del Kurdistan (KDP) guidato da Barzani e l'Unione Patriottica del Kurdistan (PUK) di cui è leader Talabani - si annuncia lungo e complesso. Intanto il radicalismo islamico, che punta al petrolio della zona ex curda, potrebbe rimettere nuove radici. Magari ripartendo da una zona al confine, vicino alla città siriana di Hajin nella provincia di Deir al-Zour ancora in mano al Califfato e da dove partono attacchi alle forze locali e internazionali. Secondo la Cia, nonostante le perdite, i fedeli a Daesh sono ancora fra i 20 e i 30 mila in Siria e Iraq. Tutti determinati e disperati, pronti a tutto e a combattere fino alla fine. Toglierli di mezzo, senza l'apporto aereo americano e quello strategico, sarebbe molto più lungo e doloroso. E incerto.

In archivio

Se l'Isis è una tigre di carta

Raqqa non è la fine. Ma l'inizio

Syria exit

A volte ritornano. Il fantasma del Califfato

Mosul, ultima meta?







Commenti

Post popolari in questo blog

Il Sabato Del Villaggio Globale - 3 giugno 2023

  🌍Clima & Ambiente🌴 👉  INC2 Parigi. La guerra della plastica.  UN lays out blueprint to reduce plastic waste 80% by 2040 | Reuters Plastic recycling in focus as treaty talks get underway in Paris | Reuters Paris to ban single-use plastic at 2024 Games | Reuters 👉 Energie rinnovabili .  The world is finally spending more on solar than oil production | MIT Technology Review 👉 Acciaio verde.   How green steel made with electricity could clean up a dirty industry | MIT Technology Review

Il Sabato Del Villaggio Globale - 5 giugno 2021

  In Bielorussia la democrazia ha il volto di donna - VoxEurop Front Page Il mondo ha finito le scorte  Global Shortages During Coronavirus Reveal Failings of Just in Time Manufacturing - The New York Times Economy & Pandemic  Cosa manca al super budget di Biden: la forte espansione della crescita  Here's One Thing Missing from President Biden's Budget: Booming Growth - The New York Times Il futuro dell'ufficio? Ibrido. Forse  How Employers Can Build a Successful Hybrid Workplace Il lavoro da casa resterà  Working from home is here to stay, reports NBER | World Economic Forum Come risolvere il paradosso disoccupati e posti di lavoro scoperti  7 chief economists: how to solve the labour market paradox | World Economic Forum Pandemic & Pandemic I primi giorni della pandemia nelle mail di Fauci  Tony Fauci’s emails from April 2020 released under FOIA - Washington Post Se la fuga del virus dal laboratorio cinese fosse vera, si prepara un terremoto politico If the Wuhan

Il Sabato Del Villaggio Globale - 10 giugno 2023

  💣Guerra & dintorni 👉   Senza limiti. La distruzione parziale o meno, della diga di Kakhovka con il suo strascico di morti, devastazione e crimine anche ambientale, segna l'ennesimo salto di qualità, in negativo, nella disgraziata guerra d'invasione scatenata dalla Russia contro l'Ucraina. Una riprova, seppure ve ne fosse bisogno, che Putin pare intenzionato a non fermarsi davanti a nulla soprattutto ora che, lo si avverte anche da quest'ultimo evento, è messo all'angolo dalle sconfitte, dall'isolamento internazionale - dal mondo che conta comunque, perché sul piano numerico fra Cina, India, in parte Brasile che fanno la parte del leone, metà della popolazione terrestre è arruolata dai governi al suo fianco - e dalle montanti critiche nonché attacchi partigiani al proprio interno.