Eppure... eppure lo Stato islamico si sta riformando, anche dopo il gran ritorno - o almeno il tentativo di rientrare - in Europa da parte dei foreign fighters, i giovani nati nel Vecchio Continente ma assimilati dalla dottrina di Daesh.
Ad accendere le luci su questa rinascita è stato paradossalmente il presidente americano Donald Trump che il 21 dicembre scorso ha annunciato, a sorpresa, il ritiro del contingente di 2 mila soldati dalla Siria.
"We have won against ISIS. We've beaten them and we've beaten them badly. We've taken back the land and now it's time for our troops to come back home." (Donald Trump, Twitter)
Una scelta (che ha portato alle dimissioni del Segretario alla Difesa James Mattis) legata alla sua politica di non coinvolgimento Usa nei teatri di crisi. Ma anche un annuncio subito contestato non solo dal Pentagono, da tutti gli esperti ma perfino dal Dipartimento di Stato e dal Consigliere per la Sicurezza John Bolton che alla fine l'ha avuta vinta, per ora, sul presidente, spiegando che il ritiro avverrà più lentamente rispetto alle poche settimane concesse da Trump e rassicurando al tempo stesso i curdi, minacciati dall'offensiva turca senza lo scudo Usa. Posizione condivisa dal segretario di Stato Mike Pompeo che ha difeso la presenza Usa e un distacco lento con la motivazione che va contenuta la presenza dell'Iran nell'area. Così per ora i soldati americani non solo sono partiti, ma addirittura sono saliti a 3 mila: il migliaio in più infatti deve consentire un ritiro ordinato. Fra tre o quattro mesi, almeno. Intanto anche dal Senato, controllato dai Repubblicani, è arrivata una mozione fortemente critica con gli annunci del ritiro da Siria e Afghanistan.
In ogni caso i segnali di un tentativo di ricostituzione dell'Isis sono diversi e convergenti. Nei prossimi giorni uscirà un rapporto del Pentagono secondo cui in sei mesi, un anno dopo il ritiro Usa, Daesh potrebbe rioccupare le zone siriane da cui è stato scacciato. "Forse anche meno di sei mesi" hanno aggiunto le fonti interne.
Tutti allarmati, dunque, a partire da Brett McGurk, l'ex inviato della coalizione anti-ISIS che si è dimesso dopo l'annuncio di Trump. Per McGurk, che ha scritto per il Washington Post, la decisione della Casa Bianca addirittura rischia di dare una "nuova vita" all'Isis in Siria che lì è/era praticamente morto. L'ex inviato, tra l'altro ha accusato Trump di aver agito senza consultare gli alleati. Oltretutto per McGurk Trump avrebbe deciso dopo una telefonata con il leader turco Erdogan il quale gli avrebbe promesso di contrastare in profondità la presenza iraniana, cosa che per l'ex inviato non è possibile perché richiederebbe oltre che un impiego massiccio di forze, un sostegno logistico che solo gli americani potrebbero fornire alle forze di Ankara le quali nelle zone di confine tolte ai curdi, si affidano a miliziani estremisti sunniti, spesso infiltrati con facilità da Al Qaeda, a sua volta avversaria dell'Isis. Senza contare, in questo quadro, il nodo curdo - vero obbiettivo di Erdogan - ai quali gli americani hanno comunque garantito una protezione e la conseguenza di un riallineamento di alleati locali verso Bashar-al-Assad, inviso agli Stati Uniti che puntavano alla sua cacciata. Non dimenticando, inoltre, il significato di un abbandono Usa per le milizie SDF formate da arabi, curdi e cristiani, asse della guerra anti Isis alla quale hanno pagato un tributo di sangue ingente.
Un guazzabuglio frutto di superficialità e decisioni affrettate, non ponderate e non studiate, secondo tutti gli esperti e, sottovoce, anche il Pentagono.
La Siria non è tuttavia il solo punto che preoccupa gli analisti e i vertici militari della coalizione anti Isis. L'altro focus è l'Iraq. Un recente rapporto del Center for Strategic e International Studies ( Csis)
La Siria non è tuttavia il solo punto che preoccupa gli analisti e i vertici militari della coalizione anti Isis. L'altro focus è l'Iraq. Un recente rapporto del Center for Strategic e International Studies ( Csis)
rivela i punti deboli dei quali gli uomini del Califfato stanno cercando di approfittare per riorganizzarsi. Gli attacchi contro gli obbiettivi governativi sono aumentati dal 2017 al 2018, a Kirkuk addirittura raddoppiati; in più ad aiutare indirettamente le formazioni terroristiche è l'instabilità del governo iracheno, i ritardi nella ricostruzione, la stagnazione, le aree nelle quali la presenza governativa è aleatoria o del tutto assente; inoltre la massiccia presenza delle milizie sciite accentua i contrasti con la parte sunnita favorendo quindi il reclutamento per il Califfato. In quest'ultimo caso va sottolineato che la presenza di attacchi soprattutto nella zona di Kirkuk evidenzia i problemi del governo per controllare l'area tolta ai curdi iracheni (anche con l'aiuto turco), mentre tra gli esperti - e lo stesso Csis - si evidenzia la necessità di ricorrere di nuovo all'apporto dei Peshmerga in affiancamento alle forze di Baghdad.
Soldatesse curde |
Ma anche qui il processo di accordo - che deve anche vincere una divaricazione interna al fronte curdo tra il Partito Democratico del Kurdistan (KDP) guidato da Barzani e l'Unione Patriottica del Kurdistan (PUK) di cui è leader Talabani - si annuncia lungo e complesso. Intanto il radicalismo islamico, che punta al petrolio della zona ex curda, potrebbe rimettere nuove radici. Magari ripartendo da una zona al confine, vicino alla città siriana di Hajin nella provincia di Deir al-Zour ancora in mano al Califfato e da dove partono attacchi alle forze locali e internazionali. Secondo la Cia, nonostante le perdite, i fedeli a Daesh sono ancora fra i 20 e i 30 mila in Siria e Iraq. Tutti determinati e disperati, pronti a tutto e a combattere fino alla fine. Toglierli di mezzo, senza l'apporto aereo americano e quello strategico, sarebbe molto più lungo e doloroso. E incerto.
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