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Da Panama al Paradise. Ricchi e più ricchi


Capitali senza frontiere e le ricchezze dell'un per cento. La professoressa Brooke Harrington, docente della Copenhagen Business-School e autrice del libro "Capital without Borders: Wealth Managers and the One Percent" ha spiegato come l'industria delle società offshore «rende il povero più povero e aumenta la diseguaglianza».

Un tema forte che emerge sullo sfondo dell'ennesimo scandalo globale delle ricchezze dei potenti - politici,  finanzieri, vip di ogni livello - emerso dalla ricerca dell'International Consortium of Investigative Journalists (Icij) e riassunto nel report Paradise Papers che segue il famoso Panama Papers di un paio d'anni fa.

Cosa sono i Paradise Papers

Chi vi è coinvolto

La ricostruzione e i documenti (Da Report)

Si tratta della più massiccia fuga di notizie e dati sensibili dai Panama Papers e secondo gli esperti potrebbe avere una risonanaza e un'importanza ben più consistenti del caso WikiLeaks del 2010 e del Swissleaks del 2015. La sostanza parla di paradisi fiscali  dove centinaia e centinaia di personaggi, per lo più famosi e di rilievo nel mondo della finanza, hanno confinato parte dei loro beni sfruttando le norme e la protezione offerta agli investimenti offshore.
Il Consorzio internazionale di giornalisti investigativi è riuscito a mettere le mani su 13 milioni di documenti, acquisiti in gran parte da Appleby, una società di consulenza attiva nel settore offshore. Il "tesoro" acquisito parla di più di  1.400 gigabyte per 13,4 milioni di file; quasi sette milioni erano nei database di Appleby e del fornitore di servizi per le aziende Estera, fino al 2016 parte della stessa Appleby. Altri sei milioni erano contenuti in 19 registri commerciali conservati per lo più nei paradisi fiscali nei Caraibi, mentre una parte minore proviene dagli archivi di Asiaciti Trust, una società internazionale di servizi fiduciari con sede a Singapore.




Ma perché esistono questi paradisi fiscali? Perché c'è l'esigenza di sfiggire semplicemente al fisco, alla tassazione dei paesi, ma anche di riciclare, di nascondere i frutti della corruzione, di eludere il pagamento delle imposte. Secondo Nicholas Shaxson, autore qualche anno fa di  "Le isole del tesoro" 
"Il sistema offshore è nella realtà che ci circonda. Più della metà del commercio mondiale passa, almeno sulla carta, attraverso i paradisi fiscali. Oltre la metà di tutti gli attivi bancari e un terzo dell'investimento diretto estero effettuato dalle imprese multinazionali vengono dirottati offshore. Circa l'85 per cento delle emissioni bancarie e obbligazionarie internazionali si svolgono nel cosiddetto "euromercato", una zona offshore extraterritoriale".


Si parla di un tesoro di 8 mila mld di dollari, per l'ex ministro delle Finanze italiano Vincenzo Visco si tratta solo del "frutto malato della globalizzazione finanziaria, del capitalismo virtuale, o del "capitalismo selvaggio". E secondo un'interpretazione forse sbrigativa, ma efficace si tratta di una serie di sistemi attraverso i quali i ricchi si difendono. A spese dei poveri. Con la Grande Crisi del 2007-2008 l'esigenza di disporre di questi paradisi fiscali e sfruttare i meccanismi di elusione si sono intensificati e la finanza offshore ha drenato risorse che dovevano essere impiegate negli investimenti, per rafforzare il welfare, aumentare e investire sull'occupazione, ma anche provvedere alla crescita dei Paesi poveri,  e sostanzialmente aiutare la vecchia redistribuzione del reddito. 

Per Roberto Mania (La Repubblica 25 luglio 2016)

" ...(i paradisi fiscali) non fanno tutti le stesse cose, si distribuiscono le funzioni in maniera coordinata con un ruolo di regista più o meno trasparente dei grandi istituti di credito, presenti infatti dovunque. Lussemburgo e Olanda - spiega Vincenzo Visco - sono la sede preferita dei fondi di investimento e delle società finanziarie di comodo che facilitano il passaggio di capitali verso le altre giurisdizioni offshore (conduits), e sono anche specializzate nell'offrire rulings fiscali favorevoli alle multinazionali. Le Isole Cayman sono la sede preferita degli hedge funds. Le Bermude sono specialiste nel settore delle assicurazioni e riassicurazioni al fine di permettere l'elusione delle legislazioni nazionali. Nei paradisi vengono costituite società di comodo per fare ciò che quasi tutte le legislazioni proibiscono. I prestanome diventano gli amministratori di queste società. Centinaia di imprese, spesso domiciliate ad un stesso indirizzo, amministrate da un unico soggetto. Ci sono le reti dei paradisi fiscali, almeno tre: europea, britannica e statunitense.
E' la Svizzera il perno in Europa, seguono il Lussemburgo (che sembra abbia custodito anche i capitali del dittatore nord coreano Kim Jong-u), l'Olanda sulle cui società finanziarie offshore transitano importi annuali pari a ben 20 volte il Pil del paese. E ancora: il Liechtstein, l'Austria e il Belgio per il segreto bancario, Monaco, San Marino, Andorra, Madeira, Cipro e anche lo Ior del Vaticano. Il secondo gruppo è quello di influenza britannica, dalla City alle Cayman, da Singapore alle Bahamas. Infine il gruppo americano, con Stati come il Deleware che garantiscono l'elusione delle normative fiscali di altri paesi, e con i "satelliti" delle isole Vergini e delle Marshall che agiscono come registro navale. Per arrivare a Panama il più grande paradiso sotto l'influenza degli Usa. Qualcosa tuttavia si muove. Dal 2018 (andranno a regime)  gli scambi automatici di informazioni fiscali tra circa 80 paesi, compresi anche alcuni ex offshore come San Marino e il Liechtenstein. Un approccio nuovo, suggerito dall'Ocse a recepito dai paesi del G20 sulla scia di una norma varata negli Stati Uniti."




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