Nel nord-est della Siria gli Stati Uniti avrebbero circa 2 mila soldati, in gran parte addestratori, truppe speciali e corpi di supporto delle forze di resistenza e delle milizie curde, tutti in prima linea nella guerra - finora vittoriosa - contro l'Isis e non allineati o facenti parte dell'esercito regolare o delle milizie di Assad.
Contraddicendo quanto sostenuto finora dal Pentagono e dalla maggior parte dei funzionari ed esperti, Trump avrebbe deciso il ritiro con la motivazione che "l'Isis è stato sconfitto ed era la mia unica ragione per esserci". E con tre righe Trump liquida di colpo tutta la strategia, peraltro spesso in ritardo e applicata con scarsa convinzione anche durante la presidenza Obama, messa in campo per arrivare alla fine del Califfato, arginare la presenza e il supporto iraniano in Siria e mettere in discussione il regime del dittatore siriano. Proprio in contrario di quanto, solo lunedì scorso, il rappresentante speciale degli Usa per la Siria, James Jaffrey aveva prospettato in un incontro dove aveva riassunto le motivazioni che erano alla base dell'impegno statunitense in quella fetta del Paese: battere l'Isis, ridurre l'influenza iraniana e arrivare a una soluzione politica della crisi.
Jaffrey aveva sostenuto che gli Usa non avevano fretta di andarsene consci che gli sforzi dell'Onu per la soluzione politica erano ancora lunghi e lontani e che l'importante era di impedire a Bashar-al-Assad e ai suoi alleati di Teheran, con il supporto della Russia, di completare una vittoria alle loro condizioni.
Ma Jaffrey non aveva fatto i conti con l'imprevedibilità del presidente che ha contraddetto quanto sostenuto nei mesi scorsi sia dal Segretario alla Difesa Jim Mattis, dal Consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton e dal Segretario di Stato Mike Pompeo senza contare che gli strateghi sono allibiti da una scelta fatta nel momento in cui si dovrebbe avere sul terreno una forza adeguata per potersi presentare in condizioni di superiorità e sicurezza al tavolo della trattativa.
Non pochi ufficiali ed esperti poi vedono dietro il tweet di Trump il pressing di Recep Tayyp Erdogan per riuscire a prendere il controllo delle zone cuscinetto ora controllate, dopo anni di lotte sanguinose, dai curdi delle forze democratiche siriane. Un modo per alienarsi, tra l'altro, l'appoggio delle forze locali in altri scenari di guerre civili, tipo lo Yemen o la Somalia.
Ma proprio la determinazione di Erdogan ad attaccare i curdi, ritenuti legati al Pkk considerato una formazione terroristica, potrebbe essere stata la chiave di volta dell'uscita di Trump il quale ha sempre avuto la preoccupazione di vedere le forze Usa - che hanno armato i curdi e sono nella zona sotto il controllo di questi ultimi - coinvolte, e magari attaccate per errore, nell'offensiva di Ankara. Anche il ritorno di un solo soldato nella bara avvolta nella bandiera è un prezzo che Trump in questo momento non può sopportare, mentre è sotto assedio nell'indagine sui rapporti con i russi durante la campagna elettorale.
Tratta dal New York Times |
E non manca chi fa notare che l'annuncio frettoloso di un ritiro potrebbe creare i presupposti per un bis di quanto fece Obama ritirando le truppe dall'Iraq e lasciando uno spazio vuoto d'instabilità poi occupato dall'Isis. E dall'Iran.
“A lot of us were blindsided. If Obama had done this, we’d be going nuts right now: ‘How weak, how dangerous.” (Lindsey Graham - R. , South Carolina)Leggi qui il New York Times
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