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Giornalismo, il futuro dietro le spalle



L'ha detto. Alla fine l'ha detto e il discorso s'inquadra nello scenario fosco del post coronavirus. Ammesso che vi sia un post. Si parla di lavoro, lavoratori e aziende.
Prima di svelare chi e cosa ha detto, occorre una premessa, dura. L'Italia stima, secondo alcuni calcoli per forza parziali, che nelle prossime settimane potrebbero rimanere a casa, nella migliore delle ipotesi, fra i 100 mila e i 300 mila lavoratori, in maggioranza nelle diverse tipologie di occupati a tempo determinato . Ma non solo. Il numero, in caso di prolungamento della fase acuta della malattia e della conseguente mancata ripresa in tempi brevi, potrebbe addirittura lievitare fino a 500 mila persone. Con il riavvio, poi, una parte potrebbe rientrare, riprendere, ma nel frattempo tutte le relative famiglie di questi ultimi dovranno pur mangiare. E poi, quante delle aziende in cui lavoravano, sopravviveranno? Quante dovranno arrendersi al fallimento.
Alcuni imprenditori prevedono che una parte di queste aziende minori, piuttosto che arrendersi e chiudere i battenti, potranno essere acquisite da industrie maggiori che possono contare su una maggiore solidità finanziaria e su una liquidità e solvibili maggiori. In questo caso, però scatteranno le ricadute delle razionalizzazioni: il che significa meno dipendenti di quanto facevano prima le due imprese. L'aspetto positivo, per l'Italia, potrebbe essere quello di ridurre il pulviscolo di micro e mini aziende su cui si regge il tessuto produttivo nazionale: il 90,6% ha meno di cinque occupati..
Questo il il quadro generale. All'interno dello stesso oggi però vale la pena di accendere le luci su un settore specifico: quello del giornalismo. Al di là del suo peso specifico - 35 mila 619 i giornalisti in attività nel 2016 (dati Agcom per l'ultimo studio disponibile, ma ora la situazione è nettamente peggiorata)  - il mondo dell'informazione è fra quelli che più sta subendo una rivoluzione ep
ocale. Non è questione di poco conto, però, se solo si pensa come il giornalismo sia, in ogni angolo della terra, un presidio di libertà e democrazia. Quindi si tratta di un'industria strategica in ogni Stato, ad di là della disintermediazione che la politica populista pretende d'imporre attraverso l'uso scorretto e truffaldino soprattutto del mondo social.
Ecco quindi che arriviamo alla spiegazione di quel "l'ha detto" iniziale, correlato all'opera di informazione che in tutto il mondo si sta facendo sulla pandemia. A parlare, sul New York Times, è stata la signora Elisabeth Green, fondatrice dell'organizzazione no-profit per l'educazione Chalkbeat . La Green non è una persona qualunque: Come ricorda il Nytimes, 12 anni fa era una giornalista  che si occupava di educazione locale al The New York Sun. Poi la crisi del giornalismo di carta, che in America è arrivata prima che da noi, ha affondato la testata e la signora Green ha creato una nuova organizzazione no profit che si occupa delle materie su cui lavorava da cronista. Oggi la Green si è trovata davanti all'opportunità di poter comperare, con la sua organizzazione, la bellezza di 261 giornali, le testate della  Gannett, la più grande catena di quotidiani del paese. Prezzo 261 mln di dollari, un quarto - annota il Nyt, di quanto ha speso Bloomberg per la sua fallimentare campagna per le primarie , per soli 261 milioni di dollari, circa un quarto di quello che Michael R. Bloomberg ha speso per la sua campagna presidenziale. La Green, fra le poche che avrebbero potuto raccogliere i fondi per questa impresa, però ha detto di no in quanto voleva dire esporsi a un prestito a tassi molto alti con una società di private equity in un campo e in un momento in cui il modello di business pubblicitario è a un passo dalla morte accelerata dalla pandemia.
Così Elisabeth Green ha parlato, si è espressa su una realtà-verità durissima. "L'ha detto":
“We need to accept that what local news is today is already dying,”
"Dobbiamo accettare (il fatto) che le notizie locali oggi stanno già morendo". L'autore dell'articolo del Nyt, Ben Smith, ha quindi esplicitato in modo ancora più brutale, naturalmente parlando dall'alto dell'esperienza del suo giornale che ha 4,9 milioni di abbonati di cui 4 solo sul digitale e senza scordare che il direttore dello stesso Nyt, Dean Baquet un anno fa affermava che “la più grande crisi nel giornalismo americano è la morte dei giornali locali. Non so quale sia la risposta. Il loro modello economico è andato. Credo che la maggior parte dei giornali locali in America sia destinato a morire nei prossimi cinque anni, a parte quelli che sono stati comprati da un miliardario locale”.
Ecco la frase secca di Ben Smith:
"The time is now to make a painful but necessary shift: Abandon most for-profit local newspapers, whose business model no longer works, and move as fast as possible to a national network of nimble new online newsrooms. That way, we can rescue the only thing worth saving about America’s gutted, largely mismanaged local newspaper companies — the journalists. " (New York Times)
Senza tanti giri di parole ha spiegato che bisogna abbandonare la maggior parte dei giornali locali e trasformarli in agili agenzie on line per salvare soprattutto "l'unica cosa degna di essere salvata" in queste imprese: i giornalisti.
Fatte le debite proporzioni (gli Usa, il mondo dei media negli States, i modelli organizzativi e di business, il pubblico a cui si rivolgono, la la storia) ma con l'accortezza di sapere che proprio da oltreoceano arrivano scelte, indirizzi e comportamenti che poi o vengono imitati qui, o vengono recepiti o comunque hanno un'influenza importante sui nostri modelli, un giudizio così netto, drastico e perfino crudele non può non impressionare il mondo del giornalismo italiano e farlo riflettere. A fondo e senza indulgenze.
E' evidente che, in questa fase e secondo questa lettura, i giornali locali in Italia, meno organizzati in catene e quindi ancora più deboli, non sono l'unica vittima designata. A finire sul patibolo sono tutti giornali di carta. La pandemia potrebbe essere solo l'acceleratore di una crisi inevitabile, il detonatore di una bomba già sul punto di saltare in aria. Gli elementi comprovanti li ha forniti Marco Bardazzi (chi è), oggi capo comunicazione dell'Eni e in precedenza a La Stampa, corrispondente Ansa negli Usa dal 2000 al 2009 in un lungo articolo denso di dati e grafici che non lasciano molte speranze alle illusioni. Anche lui "l'ha detto" presentando la sua ricerca (leggi qui):
"Qualcuno prima o poi deve dirlo. Ci provo io, con tutto l'amore che ho per i quotidiani e il rispetto per il lavoro eroico dei giornalisti in questi giorni: la crisi #coronavirus è la fine della carta stampata. Qui provo a spiegare perché"
Bardazzi esamina i dati Usa e quelli italiani riscontrando come i quotidiani di carta non abbiano gli anticorpi necessari per salvarsi dalla infezione del settore. Del resto basta constatare come la diffusione di quotidiani in Italia sia passata dai 5,5 mln del 2007 ai poco più di 2 di oggi.

Il ritardo e la gravità italiana sono accentuati anche da fatto che qui persino le versioni digitali sono in calo. E in caduta libera è il fatturato pubblicitario, vero ossigeno della stampa cartacea soprattutto quella italiana: - 71% in 10 anni, una caduta senza eguali in altro comparti, osserva Bardazzi il quale sottolinea come ogni anno da quotidiani e periodici sparisce il 10% di pubblicità Le prospettive sono ancora peggiori visto che il 49% del 76% di aziende che giudicano negativo l'impatto della pandemia prevede di ridurre gli investimenti in questo ambito.

Questa la realtà e le prospettive. Fino a ieri. Oggi però c'è il coronavirus, la tempesta perfetta che cambierà le nostre esistenze e i nostri modelli di vita - quindi anche i comportamenti sociali, le scelte lavorative, gli interessi e i consumi - per molto tempo, forse per sempre. La salute, come l'ambiente e i nostri equilibri, i rapporti familiari, avranno un'incidenza sempre maggiore. Ed è paradossale che, proprio mentre migliaia, decine di migliaia di giornalisti locali sono impegnati in un lavoro informativo enorme, coraggioso, richiesto e assorbito con voracità da un pubblico preoccupato, il modello di business dell'informazione - locale, ma non solo, cartacea in particolare - è sconvolto e non sembra avere futuro.
"That’s the terrible irony of this moment. The amount of time Americans spend with journalists’ work and their willingness to pay for it have both spiked, higher than at any point since Election 2016, maybe before. But the business that has supported these journalists — shakily, on wobbly wheels — now finds the near future almost impossible to navigate." (Niemanlab)
In America, a partire dalla Green, si stanno sviluppando centinaia e centinaia, forse migliaia di progetti alternativi, per guardare oltre  il campo delle notizie locali e salvare-ricostituire un tessuto di giornalismo che sia punto di riferimento e garanzia per le comunità. Il punto di partenza negli Usa  è una rete no profit che, sullo schema tracciato da Elisabeth Green si organizzi attorno a materie come l'istruzione, la giustizia penale o la sanità, l'ambiente oppure focalizzati sulla copertura di una città, o di una regione. L'obbiettivo è di sostituire  le centinaia di giornali locali ora di proprietà di hedge fund che sono lentamente strangolati dagli stessi. Questo in America e la ricetta non è né sicura e nemmeno consolidata. E in Italia?


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