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The ApprenTrumpIce

Come sceglie Donald Trump la squadra di governo, quella che si annuncia la più complessa e difficile da allestire per le caratteristiche stesse del leader, ovvero del nuovo presidente degli Stati uniti.
Sulla stampa Usa
ci sono molte ricostruzioni di come l'ormai quasi ex tycoon sta scegliendo i suoi uomini, quelli già indicati e quelli che ancora mancano all'appello.
Un dato emerge con chiarezza, in queste settimane: per Trump la scelta del suo team rispetta i criteri "aziendali" dello show dello stesso miliardario, quello che lo ha reso famoso: The Apprentice. Portare al suo cospetto una sorta di aspirante al successo, al lavoro, alla carica e cercare di convincere di essere il migliore ... apprendista.
Ecco con Donald Trump alla Casa Bianca sta andando allo stesso modo. Lo testimoniano le ricostruzioni interne, le confidenze degli uomini dello staff. Così, ad esempio, sarebbe avvenuto con l'ultima designazione, quella del Ceo della Exxon, il petroliere Rex Tillerson indicato come Segretario di Stato, ovvero forse della figura più importante dello staff presidenziale, il ministro degli Esteri che dovrà proiettare l'immagine americana nel mondo e che dal mondo dovrà essere conosciuto - e attraverso lui il suo Paese - e probabilmente temuto.
A convincere Trump che Tillerson è la persona giusta per quel ruolo sarebbe stato proprio la sorta di casting adottato in queste settimane: il petroliere avrebbe convinto con la sua spavalderia, per la sua sicurezza, per la furbizia con cui si è presentato al cospetto del leader (si dice che sia entrato dalla porta di servizio della Trump Towers) e dalla sua moderazione mostrata durante il colloquio. Cose che non avrebbero fatto gli altri candidati a partire da Rudy Giuliani o Mitt Romney: il primo, contando sulla fedeltà durante la campagna elettorale, avrebbe espresso i suoi concetti ad alta voce, propagandato i suoi temi forti e dimostrata un'eccessiva sicurezza sulle sue possibilità di prendere la guida della diplomazia americana.

Il secondo invece  avrebbe dato l'impronta esclusiva, quel tocco di establishment repubblicano dal quale il populista Trump vuole mantenere le distanze, anche per non farsi fagocitare nei riti della politica di Washington, quella delle stanze chiuse contro la quale si è sempre battuto.Così non avrebbe convinto neppure la voglia di rivalsa e riabilitazione tradita da David Petraeus dopo lo scandalo di rivelazioni illegali condivise con la sua biografa.
Invece Tillerson sarebbe piaciuto  oltre che per lo stile, per la comunanza d'interessi con  Trump: tra miliardari e uomini d'affari ci si capisce sempre, lo stile è il medesimo, la flessibilità ben diversa da quella, pur politica, che ad esempio potrebbero avere i cinque generali. Duro, pratico, e con una rete di conoscenze più di relazioni commerciali che politiche, che si allarga a tutto il mondo. Ma soprattutto ha una dote, essenziale in questo momento per Trump: è una grande amico di Putin e della Russia, un altro tassello di quella Russian connection che si forma, appare e scompare ma è comunque sullo sfondo (o addirittura dentro, secondo i sospetti di Obama, dei democratici e della Cia) della vicenda che ha portato il miliardario alla Casa Bianca.

L'America trumpiana dunque si apre sempre di più a una distensione con il Cremlino, anzi comincia a costruire vere e proprie autostrade in direzione di Mosca dove la diplomazia si connota più per le relazione commerciali e industriali, di partnership che per quelle eminentemente geopolitiche.
Ma da questi equilibri, proprio per la natura/destino degli Usa di punto di riferimento mondiale e per l'Occidente, sarà difficile che Trump possa sfuggire pur inseguendo la logica degli affari. Ad esempio come potrà coniugare  - se lo vorrà - l'intesa nucleare e l'apertura all'Iran avviate dall'amministrazione Obama con la posizione che gli ex generali James Mattis (Segretario alla Difesa) e il consigliere per la Sicurezza nazionale Mike Flynn (per lui cominciano i primi guai)hanno sul Paese degli ayatollah. Iran che vorrebbero distruggere ma è essenziale per contenere l'espansione dell'Isis, principale nemico dell'America, e al tempo stesso mette in discussione il ruolo dei tradizionali alleati degli Usa come l'Arabia Saudita. E i rapporti più stretti e di sostegno a Israele e Turchia spingeranno la Siria di un Assad vincente decisamente verso la Russia, così come l'Iran, i curdi e quantomeno metteranno in difficoltà ancora la solita Arabia e l'Egitto dei generali di al Sisi. Oppure ancora, i rapporti sempre più stretti con la Russia quanto allontaneranno l'Europa orientale da Washington e apriranno praterie in mezzo mondo per la Cina che, finita nel mirino principale del neopresidente, a sua volta appoggerà maggiormente la Corea del Nord e magari aiuterà perfino una Cuba ancora stretta dall'embargo e meno aperta gli americani, ma ancora in grado (o forse di nuovo in grado) di esercitare un fascino rivoluzionario sul SudAmerica.
«Non so perché dovremmo rispettare la politica di “una sola Cina” in mancanza di un accordo con essa su molte altre questioni, incluso il commercio»
Questi alcuni dei principali dossier ed ecco il compito principale dell'ex ceo di Exxon Tyllerson, mediare e designare nuovi equilibri mondiali: ne sarà in grado? E come lo farà, magari seguendo una petrol-politica che comunque dà la cifra dell'amministrazione Trump sulla considerazione che questa avrà sulle tematiche ambientali, sulle nuove risorse energetiche verdi, sulla progressiva emarginazione di quelle legate al fossile?

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