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Verità vs Affari

C'è un filo rosso che lega più Paesi e la politica estera italiana verso questi Paesi. E' chiaro che i rapporti fra Stati e la linea scelta per stabilire alleanze politiche, commerciali e anche militari passano attraverso una serie di condizioni  che costituiscono uno degli esercizi più complessi del fare politica per un leader che vuole e deve cimentarvisi.


Ma la stessa linea è anche la cartina di tornasole sul peso che un paese ha nello scacchiere, sulla sua capacità di esercitare la leadership o l'egemonia, oppure di assumere la rilevanza di un Paese  capace di difendere ed esercitare le sue ragioni con una autorevolezza che le deriva dal suo essere Stato sovrano, legittimo e democratico.
Ebbene se così è, la risposta su che genere di Paese è l'Italia è quasi scontata di fronte a tre diversi scenari che si sono aperti sotto i piedi del governo in questi anni, uno un po' più datato ma prolungatisi fino ad ora, gli altri due arrivati a una svolta tanto repentina quanto drammatica.
Per semplificare basta fare tre nomi: Marò, Regeni, Libia.

Il caso Marò

L'India non ne vuole sapere di lasciar partire anche Salvatore Girone, ora confinato nell'ambasciata. Anche di fronte al tribunale dell'Aja, New Dehli ha ribadito la sua linea dura nonostante alcune letture della vigilia volessero un allentamento del no secco che l'India ha sempre opposto. Il guaio è che dopo aver chiesto al collegio arbitrale di decidere dove si deve tenere il processo, Roma non ha molte altre frecce in faretra. In primo luogo perché non è facile esercitare pressioni su un Paese da oltre un miliardo di persone, per il ruolo che l'India ha in particolare in Oriente, per la complessità obbiettiva della vicenda. Andasse buca anche stavolta resterebbe solo la strada del raffreddamento dei rapporti diplomatici e alcune sanzioni tutte da vedere. E' plausibile che l'Italia faccia questo? No. La ricostruzione di quanto accaduto fa trasparire con chiarezza un prevalere, in entrambe le parti, della ragion politica su quella della giustizia. In Italia a intervalli regolari ci si indigna sul trattamento riservatoci dall'India, ma siamo ben coscienti di quale "film" della storia abbiamo trasmesso a New Dehli? Il guaio è che anche qui la questione è subito diventata preda dell'agone politico, con la destra a voler mostrare i muscoli e la sinistra a tentare di fare lo stesso. Così l'Italia ha perso l'occasione di inviare all'India l'unico messaggio che poteva avere un valore decisivo e testimonianza del nostro spessore di Paese: ovvero garantire, assicurare che a carico dei due marò sarebbe stato istruito al più presto un processo equo. Invece si è preferito ricostruire l'accaduto - anche sui media - con l'unica, decisiva asserzione che i due erano innocenti. Così facendo l'India, a sua volta impegnata in questioni politico-elettorali ha avuto più di una sensazione che Roma volesse riavere i suoi due soldati solo per rimetterli subito in libertà e magari con la patente di innocenti.

Il caso Regeni

Che l'Egitto menta sapendo di mentire è quasi palese. El Sisi è in patente difficoltà per la questione di un povero intellettuale straniero finito nella mani dei suoi tremendi servizi segreti e morto nelle mani degli stessi. Ma non è solo il generale sostenuto dall'Occidente in chiave anti Isis a essere in un angolo. Paradossalmente lo è anche il nostro governo che in due mesi ancora adesso non sa andare oltre il generico "ci fermeremo solo davanti alla verità vera"di Renzi senza riuscire/volere ad affondare il colpo come farebbe qualsiasi altro Paese che vedesse un suo cittadino torturato per giorni e poi ucciso presumibilmente per mano della polizia segreta. Mentre dal Cairo ogni giorno si affastellano "verità" sempre più false e artefatte ad arte, Roma non sa cosa fare se non affidarsi a qualche spedizione dei nostri giudici e dei carabinieri del Ros. Ma a questi i loro colleghi egiziani mostrano e provano ben poco. La possibilità di richiamare l'ambasciatore e congelare i rapporti commerciali - su questo blog chiesto già un mese e oltre fa - è ora di una buona fetta del mondo politico e civile italiano, dei genitori del ricercatore. Ma il governo ancora balbetta e ora spuntano le voci - guarda caso interne al Pd - che mettono in guardia da una crisi diplomatica con la scusa che potremmo essere rimpiazzati dai francesi e che le eventuali sanzioni ricadrebbero su di noi. In sostanza si spera che il governo del Cairo trovi una via d'uscita onorevole, anche se ben difficilmente potrà convincere alcuni  suoi agenti segreti a consegnarsi alla giustizia senza il rischio di una rivolta dei suoi apparati di sicurezza essenziali nella lotta al terrorismo. Succederà? Probabilmente no, anzi quasi di sicuro e il regime neppure si sforzerà certo com'è che le capacità di reazione italiane sono sottoposte all'eterna politica degli affari che muove quel poco di politica estera che abbiamo. Condotta, comunque, chiudendo sempre gli occhi.

Il caso Libia
Qui siamo passati dai cinquemila soldati in pratica pronti e chiesti/auspicati/ordinati dagli Stati Uniti (che però in Egitto sul caso Regeni non ci aiuta minimamente pur essendo l'esercito di El Sisi dipendente finanziariamente da Washington) alla negazione di qualsiasi intervento sul terreno, dopo aver visto i sondaggi e, per fortuna, riflettuto sul fatto  e ascoltati (per una volta) i veri esperti sulle conseguenze del tipo che tutte le tribù si sarebbero riunite contro l'Italia, Stato tra l'altro ex coloniale. Ora si parla di un piano per appoggiare il traballante e malmesso governo di riconciliazione nazionale di Tripoli nato in funzione anti Isis e che prevederebbe solo interventi dal cielo anche con i nostri bombardieri. Ma anche in questo caso si rischia di andare a rimorchio degli altri, come già nel 2011, facendo gli interessi di francesi (che oggi sostengono il generale Khalifa Haftar che vuole condizionare il governo di Tripoli) o degli americani o degli inglesi, senza sapere di preciso quali sono i nostri interessi e quali ci conviene perseguire. Del resto non va dimenticato che Renzi si è  opposto pervicacemente alla nomina di Romano Prodi quale inviato dell'Onu, pur sapendo che per la stima che il Professore gode presso le diverse fazioni/tribù libiche, sarebbe stato l'unico a trovare una via d'uscita all'intricata situazione costruendo, al tempo stesso, una posizione di primo piano per l'Italia sullo scacchiere locale.

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