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Il Recovery non è (per fortuna) un helicopter money


Perché aiutare e sostenere con i soldi dei contribuenti i settori destinati a tramontare in questo mondo e nel prossimo post coronavirus? Una domanda che si pone Sarah Bloom Raskin a proposito delle sovvenzioni per l'industria dei combustibili fossili (NyTimes). Ma è un interrogativo che va oltre le pur comprensibili riserve degli analisti sull'investimento finanziario in un settore tanto compromesso con il clima e con lo sviluppo in chiave green del pianeta (CNBC). E' una domanda che si allarga al piano politico laddove queste industrie ancora godono di ampi sostegno lobbistici nei centri decisionali e  del potere. Ma soprattutto si allarga anche ad altri settori del mondo produttivo nel mondo occidentale e orientale e anche nei Paesi emergenti. Un calcolo economico e finanziario, certo (e per questo cinico e perfino crudele allorché non si preoccupasse dell'evoluzione  e della salvaguardia di chi è impiegato in queste branche), ma in particolare sociale e politico se viene letto nelle sue implicazioni di sviluppo coerente delle nostre esistenze e dell'ambiente - naturale e fisico - che comporta. In altri termini, e in questo caso il discorso si attaglia perfettamente al Recovery Fund previsto dalla Ue (che sarà, opportunamente, ribattezzato Next Generation Eu) che, nella sua sostanza, fisserà linee d'intervento che i singoli Paesi dovranno adottare e verso le quali dirottare i fondi messi a disposizione dai mercati con il cappello a tripla A dell'Unione.
Cosa significa ciò e in particolare per Paesi compromessi con le proprie politiche di debito e di bilancio come l'Italia? Che i governi dovranno scegliere molto accuratamente, impostare programmi certi, definiti e semplici i cui effetti si vedano e presto sui cittadini e sul mondo del lavoro e della produzione e che questi governi dovranno, nel contempo, dire tanti  no. No, no, no a settori, spinte, comunità di servizi o produttive il cui futuro è stato compromesso ora - ad esempio le compagnie aeree (CNBC) - o a lungo ( e forse per sempre da una pandemia a cui potrebbero seguirne altre) o che comunque, come il carbone, non hanno futuro, non hanno un futuro sostenibile per il pianeta e per chi lo abita.
In questo senso non deve passare sottotraccia - e per i sovranisti di mezzo mondo questa può essere l'aggancio ideale per rimettere in discussione ancora la Ue - la sottolineatura che del Recovery Fund hanno fatti sia i principali collaboratori della presidente Ursula von der Leyen in seno alla Commissione, a cominciare dal commissario del'Economia Paolo Gentiloni e dal vicepresidente Valdis Dombrovskis.
Scrive Francesca Basso che
... "il punto centrale è questi fondi saranno vincolati alla realizzazione di riforme e di investimenti in linea con le priorità Ue (green, digitalizzazione, sostenibilità, inclusione sociale), nel rispetto delle indicazioni delle Raccomandazioni della Commissione e legate al Semestre europeo". (Corriere della Sera)
La specifica non è di poco conto, seppur viene aggiunto che saranno i singoli paesi a restare  titolari delle scelte e degli investimenti (da presentare e sottoporre, però, al vaglio Ue), perché la "condizionalità" sta nella possibilità di sospendere le rate dei fondi in caso di non rispetto/raggiungimento degli obbiettivi assunti con l'investimento. Il che, tra l'altro, dovrebbe essere una delle garanzie chieste dai paesi cosideetti "frugali" per dare il via libera al pacchetto da 750 mld, di cui circa 127 per l'Italia suddivisi in circa 82 mld a fondo perduto e 90 come prestiti (CdS). 
Il problema sarà quindi - in Italia più che altrove dove la prassi è diversa e le competenze reali pure - di quanti "no" i governi dovranno dire, piuttosto che di quanti "sì". Niente provvedimenti a pioggia, quindi. Ci saranno settori da sostenere, aiutare, far sviluppare e investire nel loro domani e altri, invece, che dovranno confrontarsi da soli - dopo i primi aiuti, in funzione di mero sostentamento alla forza lavoro e quindi per attenuare l'impatto sociale - con i mercati, sfidarli, aprirsi, ristrutturarsi, cambiare e riaddestrare i propri dipendenti, magari ricavandosi una nicchia. Del resto è una realtà con cui il mondo si sta già confrontando mentre tenta di riaprire e ripartire. Il che non è facile. Come annota Axios non è così semplice come premere un bottone, scrive Dion Rabouin che riporta l'opinione di Scott Clemons, chief investment strategist presso Brown Brothers Harriman:
"This is a process, not an event, and this is essentially a crisis of confidence so even when things reopen it's not certain that everyone will fully re-engage economically even if the governor says so".
Del resto, ricorda sempre Axiosl'ultimo Beige Book della Fed District americana riporta ancora le forti incertezze proprio sulla ripartenza in questa fase  e le impressioni negative di una larga parte dei dirigenti d'azienda sui ritmi di ripresa. (Beige Book - Fed) . Un quadro confermato dalla realtà che ha portato i dati della disoccupazione Usa ben oltre i 40 mln, con un incremento di 2,1 mln nell'ultima settimana. Dati disastrosi e potrebbero essere peggiori visto che molti economisti ritengono che il tasso record del 14,7% di senza lavoro sia sottostimato e che la percentuale corretta sia al di sopra del 20% (The Washington Post).

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