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Regeni affaire

La lotta all'Isis, si sa, non ha frontiere e non si può fare con i guanti bianchi. L'Isis è un'emergenza globale e tutti i mezzi sono ammessi per reagire all'offensiva jihadista. E' bastata questa considerazione per liquidare le speranze di piazza Tahir, calpestare

il concetto di elezioni democratiche e rimettere sul "trono" del Cairo un generale dell'esercito. Generale che, grazie ai fortissimi legami soprattutto economici che le forze armate hanno con gli Stati Uniti, ha avuto mano libera e carta bianca nel perseguire ogni afflato musulmano. Con i metodi del passato, ovvio, che tanto comodo hanno fatto ai tempi delle renditon, con decine di sospetti terroristi rapiti dalla Cia in giro per il mondo e mandati nelle carceri egiziane per essere "interrogati".
E interroga e interroga con la solita "carta bianca", ecco l'incidente. Il più grave. Un giovane italiano che credeva nei principi di piazza Tahir e sperava in un Egitto che potesse cambiare, finire stritolato nel sistema ben protetto - in nome della disperata e tardiva lotta al Califfato - dall'Occidente.
Così adesso l'Italia non sa cosa fare delle spoglie di Giulio Regeni: il ministro Gentiloni continua a bofonchiare che "sarà lunga e non facile" l'inchiesta con il pool italiano inviato al Cairo a fare da comprimario a un gioco che i servizi di sicurezza - più d'uno - stanno conducendo.
Si può pensare legittimamente che il governo del generale Al Sisi ammetterà : "Sì è vero, sono  stati nostri, ci è scappata la mano, scusate".  Non può il generalone ammettere i metodi che usa per avere ragione di opposizione laica e islamica, non può scaricare  chi ha dato l'ordine e chi ha eseguito, se non vuole assistere a una ribellione dei militari. E può contare sulla resistenze dell'Occidente che deve difendere il suo più forte - e forse unico - sostenitore convinto nel mondo arabo.
Per questo Gentiloni e l'assente Renzi (professatosi amico di Al Sisi, nonché quasi ammiratore)- sarebbe stato così negativo per un premier realmente indignato andare all'aeroporto ad attendere la salma? - non sanno come uscirne e ben poco potrà fare la task force inviata al Cairo: se non accettare, tutti insieme, la versione di comodo che si riuscirà a mettere insieme nell'entourage di Al Sisi.
Anche perché "l'Italia che ha ripreso ad andare" non può giocarsi l'Egitto. Annota l'Ispi:
L’Italia è il terzo partner commerciale dell’Egitto, il primo tra i paesi europei, con un interscambio totale di poco inferiore ai 5 miliardi di euro nel 2013(1). L’Italia è inoltre  il principale mercato per le esportazioni egiziane (8,6% del totale nel 2012(2)), che hanno un valore superiore ai 2 miliardi e 200 milioni di euro (dati Unctad). La maggior parte dell’export egiziano verso l’Italia è rappresentato dai prodotti energetici (900 milioni di euro) e dalla manifattura (420 milioni di euro). Tra i settori in maggior espansione c’è quello agricolo, che ha raddoppiato il valore delle sue esportazioni verso il nostro paese dal 2011 al 2013, a seguito di un accordo stipulato tra i governi del Cairo e di Roma.
Nel 2013 il valore dell’export dall’Italia è stato di poco inferiore ai 3 miliardi di euro, una percentuale che rappresenta circa il 5% sul totale delle importazioni egiziane(3). I macchinari industriali costituiscono la voce più importante delle nostre esportazioni, ma molto significativo è anche il valore dell’export nel settore della chimica, dell’arredamento e della metallurgia.
Gli investimenti diretti italiani (Ide) in Egitto sono stati di 1 miliardo e 100 milioni di euro nel 2012(4). L’Egitto presenta diversi punti di forza per le aziende italiane, come un costo della manodopera compreso tra gli 80 e i 250 euro, spesso più qualificata rispetto agli altri paesi emergenti, e un prezzo molto basso delle materie prime e dell’energia. Diversi grandi gruppi italiani sono già presenti al Cairo, soprattutto nel settore energetico (Eni, Enel, Edison) delle costruzioni (Impregilo), dell’impiantistica (Ansaldo) e della produzione di materie prime (Italcementi), ma non mancano anche le aziende tessili (Cotonificio Albini), le compagnie di comunicazione (Alcatel) e i gruppi attivi nella produzione alimentare (Pedon). 
Di fronte ai diritti e anche a una giovane vita spezzata da una dittatura feroce, gli affari vengono prima; il refrain è già pronto. Le aziende già avvertono, hanno paura di un bis delle sanzioni contro la Russia.
E allora cosa fare: lasciare il pallino agli Stati Uniti che tireranno il solito orecchio destinata agli alleati che commettono errori "veniali oppure dare un segnale forte da parte di un governo che si ritiene tale e richiamare per consultazioni l'ambasciatore italiano al Cairo. Gesto dirompente sul piano diplomatico, che tradurrebbe la rabbia di un Paese, il suo essere rispettoso dei diritti (se lo è), lo sdegno dell'opinione pubblica. Non solo, sarebbe bene anche congelare contratti e affari, minacciare un minimo di sanzioni. E' troppo pretendere questo o ci sono due tipi di diritti? Quelli interni e parolai dove si arriva, decenni dopo e in ritardo rispetto a qualunque altro Paese, a offrire qualche scampolo di tutela alle coppie di fatto  e quelli esterni, quelli solo parolai sia che si parli di migranti che di di un povero ricercatore che sognava un mondo arabo diverso, libero e democratico.

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