"...se la Casa Bianca di TRUMP è stata come buttare giù un tino di salsa Tabasco negli ultimi quattro anni, la Casa Bianca di BIDEN sarà come sorseggiare latte di mandorle non aromatizzato". (POLITICO)
Alla fine ha ceduto. Non in maniera eclatante, non ha concesso “l’umiliante” (secondo il suom schema mentale) vittoria all’avversario con il formalismo del riconoscimento via telefono. Ma ha ceduto. Donald Trump l’ha fatto a modo suo. Ammettendo che il suo staff collaborerà per la transizione con il team di Joe Biden (QUI), ma sottolineando che si batterà per ottenere il riconoscimento di quella che per lui è una vittoria scippata.
Ha ammesso ma non concesso (qui e qui), insomma, questione di interpretazione quindi, almeno per salvare la faccia con i suoi.C’è molta scena e tattica nello show messo in piedi
dal presidente uscente dopo il voto del 3 novembre. In parte dipende dal suo
carattere, di qualcuno che non è mai stato abituato a dover soccombere da
tycoon, anche a costo di ricorrere a mezzi illegali. Dall’altro la volontà di
tenere saldo il fronte dei suoi fan e conservare – per ora – la presa che ha
sul partito repubblicano. Infine l’esigenza di conservare la spinta del voto
presidenziale per proiettarlo sul ballottaggio di gennaio in Georgia: due seggi
senatoriali che possono assegnare la vittoria, e quindi il dominio completo, dei
dem oppure consentire al Gop di mettersi sulla strada di Biden grazie ai voti
importantissimi del Senato.
Comunque sia Trump si è dovuto arrendere. Davanti alle
pressioni dei suoi – la figlia Ivanka e il cognato Jared sarebbero stati i
primi a spingere in tal senso e non è un caso che da giorni, in pratica da dopo
il voto, non si siano più espressi pubblicamente -, del partito
repubblicano spaventato di essere trascinato nel baratro da un presidente
che ha fatto a pezzi non solo anni, decenni di politica americana, i suoi
caposaldi del dopoguerra, ma addirittura i principi della stessa democrazia. Un
po’ troppo. Ma si è arreso anche per un semplice, pratico motivo: nonostante le
sceneggiate di Rudolph Giuliani (un triste declino il suo) e la progressiva
fuga del team di avvocati messo in campo (a migliaia, decine di migliaia di
dollari all’ora), nessuna delle 22
cause intentate nei vari Stati è stata accolta dai giudici. Non solo
confermando così che il voto è stato regolare e legittimo, ma anche impedendo
di fatto la mossa finale che Trump voleva compiere: il ricorso alla Corte
Suprema. E neppure la sua volontà, eversiva, di convincere i funzionari locali
nei vari Stati, Pennsylvania e Michigan su tutti, a non certificare il
risultato pro Biden, ha avuto successo per la resistenza
di questi stessi esponenti del governo, sia pure di fede repubblicana (qui).
Intanto Biden sta costruendo la sua squadra di
governo. Con
qualche sorpresa e molte conferme. E un vago senso di restaurazione dopo
anni di “follie”, un’amministrazione che, secondo una definizione di Brendan
Buck, sarà “deliziosamente noiosa” e affidata a personaggi
dal solido curriculum in senso alle istituzioni politiche americane e dalla
lunga e consolidata esperienza. Scrivono
Anna Palmer e Jake Sherman su POLITICO Playbook:
"Expect interviews with Joe Biden to be a big deal -- meaning, they won’t happen that often, which gives them an extra oomph. We’ll complain, and they won’t care. (His interview with Lester Holt on NBC will air tonight.) We can’t imagine he’ll pop into the briefing room with regularity, or tweet his emotions, thoughts or decision-making process. SAPs -- statements of administration policy -- will, again, be a big deal, because it will be how you know what the administration is thinking on a piece of legislation. You probably won't get conflicting signals from the White House about whether the president will sign a bill. If he works on it, and is a party to the agreement, he probably won't veto it at the last minute."
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