Ma la questione lavoro in questa Italia è molto, molto più complessa e difficile da studiare come da guidare rispetto ai puri dati dell'Istat. Alla spalle di una maggiore o minore disoccupazione vi sono alcuni provvedimenti, nessuno dei quali da anni, forse decenni, si è rivelato strutturale, forse con un'unica, parziale eccezione - negativa nel suo complesso - del Jobs Act del governo Renzi. Quindi, a parte quest'ultimo, che comunque non ha avuto grossi effetti strutturali per la tante carenze evidenziate nel suo impianto e per la notevole carica ideologica che lo ha caratterizzato, a influenzare il mercato del lavoro sono stati il decreto Poletti, il Jobs Act e il decreto dignità dell'attuale esecutivo. Provvedimenti che da un lato hanno ampliato la precarietà, dall'altro hanno tentato di correggerla per indirizzare gli sforzi verso il lavoro a tempo indeterminato e dall'altro ancora hanno cercato di indurre la trasformazione dei contratti da tempo determinato a quello indeterminato.
La nota dell'Istat
La realtà dei dati puri, passati al setaccio, mostra però ben altro quadro, pur nella sua parzialità di andamenti studiati nel loro andamento mensile, il modo migliore per "imbrogliare" la carte, dare loro una lettura politica e perdere di vista il quadro generale e le dinamiche corrispondenti.
Così, ad esempio, l'andamento dell'occupazione è legata più di quanto si pensi all'aumento o alla diminuzione del Pil, sebbene i movimenti siano meno visibili nel breve periodo di quanto si vorrebbe far credere. Come fa notare Francesco Daveri:
Lo studio de lavoce.info
"Per fare calcoli più precisi occorrerà aspettare qualche trimestre, sia per trarne conclusioni ottimistiche che pessimistiche. Una corretta valutazione delle politiche richiede un’attenta analisi dei dati, non la rincorsa del numero mensile che più si presta a sostenere tesi preconcette. L’analisi dell’esperienza passata suggerisce però almeno una conclusione: senza crescita del Pil la disoccupazione non scende in modo duraturo."
In ogni caso si può constatare che i movimenti sono contenuti, fin troppo per un'economia che arranca come quella italiana e alle prese con problemi e ostacoli secolari. Il fatto che uno scostamento di uno 0,1 in più o in meno faccia uscire commenti politici la dice lunga sulla capacità delle forze parlamentari di vedere le cose nella loro prospettiva e nell'indicare scenari futuri.
Tuttavia a spegnere i facili entusiasmi basta una lettura diretta delle cifre dell'Istat. Come rileva Linkiesta va sottolineato che il tasso dell'occupazione sale ma per un semplice motivo: il contributo essenziale degli over 50. Ovvero tutta quella gente, quei lavoratori che - colpiti dalla legge Fornero e da quelle precedenti fino a Dini, quindi dalle varie riforme previdenziali - non vanno in pensione e restano al loro posto. Ecco come si spiega quel +1,6 che tradisce l'altro dato, di fondo: che il tasso non sale tra i più giovani. Nei 67 mila occupati in più, i 15-24enni occupati scendono dello 0,7% (14mila in meno),e aumentano gli inattivi dello 0,2% (+11mila). Un "balletto" questo che si ripete da anni: se salgono gli occupati sono i più anziani che non vanno in pensione, se il tasso dei giovani non cresce in compenso aumenta quello degli inattivi o viceversa. Il saldo alla fine è minimo.
La questione di fondo è sempre la stessa: non c'è una visione, una strategia di lungo corso, una valutazione dell'evoluzione sociale ed economica che guardi al di là dell'anno o del quinquennio. Così non si va oltre le riforme strutturali sempre invocate da Bruxelles e spesso interpretate solo nella loro versione iper liberista e mai in quella di una maggiore flessibilità in un quadro di rispetto di diritti, salvaguardie e sostegno-avvio proprie di una società evoluta e moderna, che rispetta il lavoro e le aziende ma colloca sempre e comunque la persona-lavoratore al primo posto.
Commenti
Posta un commento