Tanta acqua è passata, decenni di lotte (e sconfitte), rivendicazioni non solo di quella stagione, ma dei suoi risultati, dei traguardi raggiunti.
Oggi la società e il mondo del lavoro sono distanti anni luce da allora, il quadro è cambiato, in modo drastico, una svolta quasi imprevedibile. Senza dimenticare la mutazione genetica: le fabbriche sono in buona parte scomparse, chiuse, serrate, in ogni caso ridimensionate: meno e con molti, moltissimi operai in meno.
Ma soprattutto è cambiato un altro aspetto fondamentale del lavoro: la retribuzione, falcidiata dal nuovo quadro, ma soprattutto della Grande Recessione, dalla crisi mondiale che ha mandato in soffitta credo e conquiste e ha reso i luoghi di lavoro succursali della finanza, principale "merce" al posti del prodotto. La globalizzazione ha imposto tempi e modi di produzione più selvaggi, estremamente competitivi con Paesi in cui i livelli salariati sono drammaticamente più bassi di quelli nostri, dimensionati su società e attese troppo differenti.
Così oggi ci si accorge che, se un barlume di ripresa si affaccia anche da questa parte dell'Occidente, la questione salari resta irrisolta. In pratica un qualche accenno di ripresa c'è - ma sull'occupazione sarebbe bene guardare a fondo il problema del precariato che entra nelle statistiche ufficiali come "occupazione" a prescindere - ma le buste paga rimangono più basse rispetto a prima della crisi.
Il sito lavoce.info analizza questo stop con Andrea Bassanini, Andrea Garnero, Stefano Scarpetta e Angelica Salvi Del Pero che analizzano l'andamento rilevando che
"al netto dell’inflazione più bassa, la crescita dei salari reali è molto lontana dalle tendenze pre-crisi: l’aumento medio annuo dei salari reali nell’area Ocse è passato dal 2,4 per cento del quarto trimestre 2007 all’1,5 per cento medio del quarto trimestre 2017"e rappresentando la situazione con questo grafico
Secondo gli autori della ricerca e sulla base dell'Employment Outlook Ocse il primo motivo è la profonda differenza di produttività tra aziende, tra quelle di maggiori dimensioni e leader e le altre, quelle minori con queste ultime che non sono state in grado di tenere il ritmo dell'aumento di produttività delle prime le quali, a loro volta, essendo a forte intensità di capitale e ricollocandosi nelle quote di mercato a loro vantaggio finiscono per schiacciare la parte dei salari nel valore aggiunto a livello aggregato. Alla fine si arriva a stabilire che con una crescita fra il 1995 e il 2013 dei salari al ritmo della produttività, i primi dovrebbero essere cresciuti del 13%
Ecco il grafico, sempre tratto da lavoce.info
Secondo fattore il cambiamento di richiesta del mercato post-crisi: si cercano lavoratori più qualificati e si riducono i posti di coloro meno preparati in base alle competenze tecnologiche avanzate richieste dalla nuova produzione su scala globale. I meno preparati e impiegati in occupazioni di routine hanno finito per essere maggiormente espulsi e i loro posti non sono stati in gran parte rimpiazzati.
Terzo elemento proprio l'aumento della disoccupazione e in presenza di fasce di lavoratori meno allineati con le competenze richieste, ha portato molti non occupati ad accettare attività a bassa specializzazione e a salario più ridotto, accettando anche occupazioni part time ( negli ultimi dieci anni, si sostiene nello studio, rappresentando il 14% del totale) che ovviamente hanno compresso le dinamiche dei salari.
Sul dibattuto s'innesta anche la discussione sul decreto Dignità del governo che, secondo l'economista e ricercatrice Marta Fana (Il Fatto Quotidiano 1 agosto 2018), non risolve i problemi della precarietà e quindi dell'impoverimento dei salari dei lavoratori.
Dice Fana che
..."l' estensione dei voucher non farebbe che aumentare l' estrema precarietà del lavoro più vulnerabile, privandolo di quei diritti fondamentali previsti dalla Costituzione ma in fondo anche dal buon senso in una società pervasa sempre più aggressivamente da elevati livelli di povertà tra i lavoratori. La povertà nel lavoro è allo stesso tempo l' anticamera del disagio economico a fine carriera quando dovranno essere contati i contributi versati dai lavoratori in vista della pensione. A conti fatti, a prescindere dai voucher, le aziende hanno a disposizione una molteplicità di strumenti per perseverare nell' uso del lavoro discontinuo e a basso costo, potendo al contempo far leva sulla rotazione e la ricattabilità dei lavoratori."E sottolinea che
... "il costo del lavoro, fin troppo basso per molte forme contrattuali, a partire dai livelli salariali, deve essere considerato un freno alla crescita e non viceversa"osservando che
... "c'è da chiedersi se almeno la crescita contingente non debba essere distribuita equamente tra aziende e lavoratori, e allo stesso tempo se sia possibile avallare un sistema aziendale incapace di remunerare adeguatamente il suo maggiore fattore di produzione, il lavoro appunto".
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