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Il Paese dei sogni. E dei sognatori



L'Italia reale la vediamo tutti, nella vita quotidiana: ci sono meno soldi in giro, si taglia  e si riduce, si lavora meno e di lavoro ce n'è meno e anche quel poco si fatica a incrociarlo, si torna al risparmio minimo, cambiano le abitudini, non ci si fida del futuro,
i giovani fuggono, gli adulti soffrono, si curano meno, temono per le pensioni, il welfare latita sempre di più, dilagano il privato e i servizi a fini di lucro, la burocrazia non cede, la corruzioni avanza, le mafie e il crimine pure, l'inefficienza non scema.
Eppure... eppure c'è un'altra Italia che si specchia in quella appena descritta. Un'Italia che però è l'esatto contrario: che, in una felice sintesi, sta bene, anzi sta meglio di qualche anno fa perché è cresciuta sulle difficoltà dell'altra Italia, quella dall'altra parte dello specchio. Un'Italia che però è piccola piccola, ristretta, per un bel po' l'Italia di chi è sempre stato bene, dei ricchi cui si è aggiunta una fetta di arricchiti negli anni dei privilegi e delle crisi.
Eppure dell'altra Italia, quella impoverita e triste e anche arrabbiata, quella che si macera in contese interne fra chi ha poco e chi ha meno, che è dimentica della solidarietà e non sa più cos'è una classe, di questa Italia pochi parlano. Giusto qualche trasmissione di approfondimento tv e qualche giornale non allineato.
E ora però emerge anche dal rapporto annuale dell'Istat il quale illustra
"un Paese dove la disuguaglianza aumenta e dove non a tutti sono date le stesse opportunità: addio mito dell' ascensore sociale, in Italia i figli stanno peggio dei padri e la distanza fra chi vive meglio e chi vive peggio si allarga" (La Repubblica, 21 maggio)
Il reddito ci definisce come una società meno equilibrata e quindi meno democratica: l'indice di Gini afferma che tra il '90 e 2010 ci siamo allontanati dallo zero ideale, salendo dallo 0,40 allo 0,51. Un balzo che fa trasparire come la povertà tra i minori è passata dal 12 al 19% fra il 97 e il 2011. Ma soprattutto lo studio accerta che l'ascensore sociale si è bloccato: chi nasce povero o fa parte al massimo del ceto medio, difficilmente sale. Il figlio di operai insomma è raro che possa divenyare medico o imprenditore. E ciò lo si riscontra soprattutto nei Paesi dove, guarda caso, hanno prevalso le politiche di destra o liberiste.

Le differenze di genere, di età, di titolo di studio e di posizione contrattuale (in particolare la stabilità dell’occupazione) sono le principali fonti della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi lordi da lavoro sul mercato.  Il vantaggio degli individui con status di partenza “alto” (ossia che a 14 anni vivevano in casa di proprietà e che avevano almeno un genitore con istruzione universitaria e professione manageriale), rispetto agli individui che invece provenivano da famiglie di status “basso” (ossia con genitori al più con istruzione e professione di livello basso e con casa in affitto) è più basso in Francia (37%) e in Danimarca (39%), mentre è molto forte nel Regno Unito (79%), in Italia (63%) e Spagna (51%). 

Per l'Istat la situazione segna qualche punto positivo sul versante del lavoro nell'ultimo anno, ma poi spiega che il merito è degli ultracinquantenni che, bloccati nei pensionamenti dalla riforma Fornero, tengono il fronte.
"Il tasso di occupazione dei giovani di 15-34 anni si attesta al 39,2% (50,3% nel 2008). Il calo, avviatosi sin dal 2002 – soprattutto nelle classi di età 20-24 e 25-29 –, è andato accentuandosi tra il 2008 e il 2014, quando si assiste a un’impennata anche del tasso di disoccupazione. Per le donne di 30-34 anni, almeno fino al 2008, i tassi di occupazione risultano invece in crescita. Il tasso di occupazione cresce leggermente tra le persone di 35-49 anni, arrivando al 71,9%, +0,3 punti sul 2014 ma ancora 4,2 punti percentuali sotto il valore del 2008. L’incremento dell’ultimo anno interessa entrambi i generi: l’indicatore sale all’82,9% per gli uomini (+0,2 punti sul 2014) e al 61,0% per le donne (+0,5 punti). La riduzione del divario di genere in questa classe di età è in atto a partire dalla metà degli anni Novanta, per effetto degli andamenti opposti del tasso di occupazione di uomini e donne; tuttavia il gap è ancora molto ampio (circa 22 punti percentuali).  La crescita più sostenuta del tasso di occupazione si rileva nella classe di età 50-64 anni (+1,5 punti rispetto al 2014 e +9,2 rispetto al 2008), che raggiunge il 56,3%. In questo caso il trend positivo è iniziato a partire dalla fine degli anni Novanta, ed è stato particolarmente accentuato durante la crisi. Per gli ultracinquantenni l’aumento degli occupati è legato alle riforme del sistema pensionistico, all’incremento della popolazione delle generazioni del baby boom e all’innalzamento del livello di istruzione. In particolare nella classe 60-64 anni l’incidenza della popolazione con al massimo la licenza media scende dal 75,2% del 2005 al 57,0% del 2015, quella della popolazione con diploma aumenta dal 18,6 al 30,7% mentre quasi raddoppia il peso dei laureati, dal 6,2 al 12,3%".

Se poi non si vogliono prendere in considerazione i dati Istat, leggete qui un articolo dell'aprile scorso dei liberal-liberisti (quindi non citabili per sinistrismo se non per la vena liberal, ma di sicuro documentatissimi, bravi e onesti che piaccia o no) di NoisefromAmerika  per capire quanto di vero c'è nelle celebrazioni quasi quotidiane di fonte governativa. I dati sono spietati anche per quelli fra i più giovani che non hanno un'occupazione  e neppure la cercano, per le donne, per i meno istruiti, per le famiglie:

"Nel 2015 sono più di 2,3 milioni i giovani di 15-29 anni non occupati e non in formazione (Neet), di cui tre su quattro vorrebbero lavorare. I Neet sono aumentati di oltre mezzo milione sul 2008 ma diminuiscono di 64 mila unità nell’ultimo anno (-2,7%). L’incidenza dei Neet sui giovani di 15-29 anni è al 25,7% (+6,4 punti percentuali su 2008 e -0,6 punti su 2014). La condizione di Neet è più diffusa tra gli stranieri (35,4%), nel Mezzogiorno (35,3%) e tra le donne (27,1%), specie se madri (64,9%).  Le famiglie jobless (in cui nessuno è occupato) passano da 10,0% del 2008 a 14,2% delle famiglie con almeno un componente di 15-64 anni e senza pensionati. Tra i single gli occupati si riducono da 48,6% del 2004 a 44,7% del 2015 e le occupate salgono da 28,8% a 30,6% nello stesso periodo. Tra le famiglie con più componenti aumentano quelle in cui lavora solo la donna (da 7,2% del 2004 a 10,7%) e diminuiscono le famiglie con più di un occupato (da 55,1% a 50,0%). "

E ciò che è peggio è che chi è più povero ha abitudini alimentari e di vita che  finiscono per penalizzarlo: quindi meno istruito, più in difficoltà nel trovare un posto di lavoro, consuetudini a tavola e nello stile di vita che ne minano di più la salute e in definitiva, maggiori probabilità di morte a età più basse rispetto a chi sta meglio.

In generale, i bambini e i ragazzi che vivono in famiglie con buone risorse economiche e un livello sociale più elevato presentano una minore esposizione al rischio di condurre stili di vita non salutari. Quando entrambi i genitori seguono stili di vita scorretti, il rischio di assumere lo stesso comportamento da parte dei figli raddoppia per l’eccesso di peso, cresce di tre volte e mezzo per il fumo, quadruplica per l’alcol e aumenta di nove volte e mezzo per la sedentarietà.  Il titolo di studio incide sulla speranza di vita, soprattutto per gli uomini. A 80 anni la quota di uomini laureati sopravviventi è del 69%, contro il 56% di chi ha al massimo la licenza media. Tra le donne laureate la quota è invece dell’80%, contro il 74% di chi ha basso titolo di studio.

Questa è l'Italia misurata nelle ricerche e nelle statistiche. E' così complicato vederla per politici e mass media?

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