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Se l'Isis è una tigre di carta

Dibattiti, parlamentari e non, scontri verbali nelle piazze - reali e mediatiche - ma alla fine la ricetta nessuno è riuscito a cacciarla fuori. O quasi nessuno: Vladimir Putin lo sa come fermare l'Isis o come va di moda chiamare adesso quella comunità terroristico-estremista musulmana, ovvero Daesh. Putin sa che bisogna sbaragliare le truppe nere, con quali mezzi è facile intuirlo, la Cecenia insegna.

Hollande sembra animato dalla volontà di vendetta e si muove come un furetto tra le capitali che trovare chi possa fornire la spina dorsale del "martello di Dio" che Parigi vorrebbe scatenare sopra gli jihadisti. Perchè il presidente francese sa fin troppo bene che la force de frappe è un'arma spuntata dalle epoche che passano, la grandeur è un ricordo e i bilanci (con i parametri di Maastricht violati da anni nella tolleranza di Bruxelles) non permettono di buttare soldi in una guerra tanto lontana quanto costosa. E Obama, uomo di pace, torna a puntare sulla testa di Assad, ma sapendo bene che non potrà fare come prima quando il suo obbiettivo primario era proprio il presidente siriano e l'Isis - in fondo fondo - poteva anche far comodo.
Il problema è che qualcuno dovrà decidersi - senza contare gli specialisti già sul terreno e le truppe russe per lo più concentrate sui mezzi corazzati e sulle forze aeree - a mettere gli scarponi sul terreno siriano se si vuole vincere l'Isis. Tutti gli esperti militari lo dicono. Ciò che non dicono è se anche questo potrebbe bastare a farla finita con il movimento terrorista.
Difficile, se non altro perché per armare un giovane shahid, ben indottrinato e fanatico religioso, basta poco, nulla. Qualche centinaio di dollari. E lui può fare decine, anche centinaia di vittime, mettere in crisi interi Paesi, portare quasi allo scontro Stati sovrani.
Con questo assunto basilare risulta chiaro che il problema va affrontato su altre basi, con una analisi diversa di ciò che porta il giovane aspirante shahid nelle braccia di Al Baghdadi. In poche parole alla base dell'Isis sta un termine semplice semplice: disuguaglianza. Troppe povertà, troppe disparità, troppa ignoranza, poca libertà, poca laicità nel Medio Oriente e nelle nostre periferie, tra gli immigrati ovviamente i più derelitti ed emarginati. E lo spiega bene Piketty qui .
In questo senso l'Isis è un po' un parente nostro, creato dai nostri egoismi e dalle nostre politiche post-coloniali e neo-globazioniste, frutto dei traffici d'armi della Turchia alla quale  questi musulmani estremi (questioni di famiglia, si potrebbe dire), sunnisti e wahabiti, non dispiacevano in chiave anti Assad e soprattutto anti curda. Frutto anche della nostra fame di petrolio che ha dato vita a due guerre del Golfo e all'assalto alla Libia, frutto del nostro sostegno alle Primavere arabe purché queste non mettessero in discussione le alleanze locali e soprattutto i segreti delle oligarchie militari (vedi Egitto). Ma anche frutto del sostegno concreto - che l'Occidente fa finta di non vedere - delle satrapie finto moderne degli Emirati o dell'Arabia Saudita ai gruppi terroristi (c'è il precedente di Al Qaeda) e li finanziano mentre da queste parti si fa finta di non vedere in cambio di tonnellate di miliardi investiti in affari e patrimoni industriali e immobiliari.
E ora che il bubbone è scoppiato l'Europa, l'Occidente non sa cosa fare. Manda qualche aereo a bombardare, si affida ai curdi ora riscoperti perché il loro sacrificio è utile ed evita gli insostenibili costi umani che l'Europa e l'Occidente non può sopportare. Ma poi?

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