Vertici, riunioni d'emergenza di servizi segreti, capi militari, ambasciatori e compagnia cantante. Ma la realtà è che la prima risposta della Francia, prevedibile ma cieca, è stata quella di calcare la mano con i raid aerei nella parte di Siria occupata dall'Isis. Bombe su bombe, missili a devastare Raqqa, la roccaforte del nascente califfato, dove con tutta probabilità i capi dell'Isis nonc'erano già più. Sarebbe incredibile che se ne fossero stati lì dopo quanto accaduto.
Reazione di pancia, emotiva, disperata e piena di rabbia. Comprensibile se si trattasse di una rissa di strada, meno se siamo sul campo di una guerra mondiale o quasi, dove si gioca con la pelle di milioni di persone, civile soprattutto. A Parigi, ma anche a Raqqa. Non bisogna dimenticarlo.
Ma anche in questo caso va constatato che la Storia non insegna nulla all'uomo, anzi al politico, se non quando quest'ultimo è uno statista. Ma questa non è stagione di tali leader. Purtroppo sembra avesse ragione Hegel quando sosteneva che
"che uomini e governi non hanno mai imparato nulla dalla storia, né mai agito in base a principi da essa edotti"Cos'hanno fatto infatti Clinton dopo gli attentati in Kenya e in Tanzania del 7 agosto 1998 o Bush dopo l'attacco alle Torri Gemelle? Il primo ha scaricato una pioggia di missili su Sudan e Afghanistan (ritenuti i santuari di Al Qaeda), il secondo ha attaccato l'Afghanistan e poi l'Iraq. I risultati a distanza di 17 e 14 anni si sono visti, li abbiamo sotto gli occhi. E sotto la terra vi sono centinaia di migliaia di uomini e donne, militari ma ancora più civili, occidentali e musulmani.
Occorre dunque una strategia che non sia (solo) di guerra. Sul tappeto c'è sempre più forte l'opzione russa, ovvero contrastare militarmente, anche sul terreno a questo punto, i seguaci del califfato. Mantenendo nel contempo Assad sul suo trono di terrore. Obama era riluttante, scottato dal precedente iracheno e dalla volontà di abbattere Assad in nome della filosofia delle "primavere arabe", filosofia oggi in ritirata sotto l'offensiva jihadista. Oggi però, sotto la spinta dell'attacco al cuore dell'Occidente, la non strategia potrebbe essere rivista. Anche perché l'Europa e la la Francia in particolare potrebbero spingere per la soluzione più radicale. Che però per essere efficace e forse definitiva chiede "boots on the ground" ovvero truppe combattenti, il grande tabù dopo il fallimento iracheno. Senza contare che mettere insieme la coalizione post 11 settembre è oggi più complicato al mutare dello scenario alla crisi che ha messo a dieta i bilanci nazionali e il germoglio di ripresa odierno che consiglia di andare piano con spese di questo tipo.
La faccenda dunque si complica anche perché, al contrario dell'Iraq di Saddam, quella contro l'Isis è una guerra asimmetrica, non contro un regime e un esercito regolare. E quanto possa essere letale lo si è visto proprio nel dopo Saddam.
Per andare in guerra con il califfato serve una strategia più ampia e complessa di cui l'opzione militare è solo la conseguenza: la battaglia è culturale, capire l'origine e i motivi che spingono molti giovani immigrati islamici in Europa a imbracciare il kalashnikov e fare stragi o tagliare le gole è complesso, implica emarginazione, disagio sociale, disoccupazione, ma anche regressione verso un credo religioso interpretato ad arte da alcuni imam.
Non sono i "dannati della terra" di Frantz Fanon i terroristi di Parigi. Lo sostiene convinta sul Corriere della sera una che di ribellioni sociali se ne intende come Rossana Rossanda:
"A giudicare dai casi passati non sono neppure i più poveri, ci sono tracce di disperazione vendicativa"
Se la Rossanda ammette di non avere una indicazione da dare, lei figlia del '900 in cui un fenomento del genere non esisteva, la strada per batterli la indicano i curdi, turchi, siriani e iracheni oltre che gli yazidi del Nord Iraq, coloro che per difendersi, per salvare la loro terra ma soprattutto la loro libertà laica (da sottolineare il ruolo femminile e dell'emancipazione) , hanno dato battaglia e sono gli unici oggi ad avere fermato il califfato, ad averlo costretto in ritirata a Kobane come a Sinjar . Armi in mano, in parte fornite dall'Occidente, determinanti forse come i raid aerei (ma l'Isis è così forte perché ha i pozzi di petrolio del Nord Iraq, le armi americane prese sempre all'esercito che fu di Saddam e tanti soldi di regimi assolutistici con cui l'Occidente fa affari.
Ma la forza curda è nei principi che esprime, nella libertà, parità e indipendenza femminile, nell'idea laica dello Stato, del suo Stato, autonomo e autodeterminato, nel suo tratteggio socialista, nella carica di giustizia sociale e uguaglianza che propugna.
Ecco le altre "armi" curde, quelle di cui l'Occidente avrebbe bisogno per battersi con i fanatici nascosti nella sue periferie. Questi, come si è visto troppe volte nei secoli, muovono la loro guerra sotto le bandiere di un credo religioso, seppure distorto ed estremizzato. E a questo l'Occidente non deve contrapporre il suo, cristiano, come porzioni del mondo liberista vorrebbe. Senza un lavoro di multiculturalismo, di forza dell'idea laica, legata agli uomini e non all'ultraterreno, di mutualismo e riappropriazione del lavoro rapportato al soggetto e non luogo di produzione e ai suoi mezzi, è impossibile "vincere". Ma se ai giovani musulmani delle banlieue, alle loro fantasie-speranze di premi metafisici, se alla loro visione di società escludenti e penalizzanti, si mostra un universo reale, concreto di occupazione, espressione culturale autonoma, di una società libera dai condizionamenti religiosi, solidale, equa e per questo ricca, la "guerra"può essere vinta. Tra l'altro, proprio in nome di questi principi, il ruolo femminile di queste schiere di giovani fanatizzati, rivisto in chiave autonoma e autoespressiva, può rivelarsi fondamentale nello scardinare insieme l'impostazione delle società islamiche chiuse e quella dei gruppi salafiti e dintorni
Ma l'Occidente ha voglia e può agire in questo senso?
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