Fino a qualche anno fa la Russia di Putin in Medio Oriente contava meno di nulla, le vecchie alleanze del tempo sovietico dissolte da tempo, i regimi nazionalisti dei giovani ufficiali socialisteggianti travolti e passati nel campo avverso, gli stessi personaggi tolti di mezzo da guerre e colpi di Stato.
Sempre qualche anno fa la Turchia di Tayyp Erdogan aveva altri problemi: una crisi economica arrembante, il Pkk che terrorizzava le principali città, l'opposizione civica pronta a sfidare il sultano anche nelle piazze, gli ufficiali strenui difensori della concezione laica e nazionalista di Atatuk ed effettivi detentori del potere con solidi agganci, grazie alla Nato, con gli Stati Uniti.
Qualche anno fa, tutto questo. Ora non più.
Oggi la Russia ha una testa di ponte e un importante porto in Siria, Tartus, che consente a Mosca di riaffacciarsi sul Mediterraneo, e una base aerea Hmeimim che permette il controllo sui cieli di una delle principali aree di potenziale e d effettiva crisi (QUI). Non solo, dopo essere corso in aiuto di Assad nel 2015, Putin ora è il dominus con il quale bisogna fare i conti per ogni equilibrio in territorio siriano. E, quindi, anche con influenza su Iraq, perfino Iran - con i quali i rapporti sono ottimi, in chiave anti americana - e sui territori del Kurdistan e del Rojava.
Il problema Vladimir Putin lo aveva a ovest, tra Medio Oriente e Nord Africa, una zona strategica sempre per l'influenza sul Mediterraneo ma soprattutto per affacciarsi direttamente sull'Europa senza dover sfidare le autocrazie dell'Est - il gruppo di Visegrad - simili a Mosca per la concezione illiberale dei governi, ma fieramente contrarie alla Russia, che dal punto di vista storico, non ha mai nascosto le sue ambizioni imperiali ed egemoniche.
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Tratta da http://www.limesonline.com |
Questo problema Putin ce l'aveva. Ora non più. Perché grazie all'insipienza e all'incapacità di Europa, Italia e Germania (diverso il discorso per la Francia, che pure non riesce a distribuire le carte come avrebbe voluto), ora il nuovo zar del Cremlino si siede fra i potenti che si stanno spartendo in due la Libia che fu di Gheddafi. Con tutto quanto in termini di petrolio e gas e sviluppo questa terra può significare. Un regalo europeo che a Putin non è costato neppure molto: circa 500 o 1000 mercenari della compagnia privata Wagner - che stessi "omini verdi" senza insegne e stemmi sperimentati nell'annessione della Crimea nel 2014 - inviati a "insaputa" del Cremlino a sostegno dell'Esercito nazionale libico del generale Khalif Haftar insieme a una recente dote di 5 milioni di dinari in moneta sonante (ma non sono mancate le donazioni precedenti).
“The Europeans and Americans let this conflict drag on from April until it reached a stalemate. That allowed the Russians to step in, with a few hundred mercenaries on the ground, and make a difference. What we’re seeing is competition over who defines the international framework for any negotiations to end the conflict. Putin and Erdogan are mounting a challenge to the European claim to leadership on Libya.” (Wolfram Lacher, a Libya scholar at the German Institute for International and Security Affairs, The New York Times)Haftar dall'aprile del 208 ha scatenato da Bengasi e dalla Cirenaica la sua offensiva antiterrorismo contro il governo di Tripoli - retto da Fayez al Sarraj (GNA), sostenuto da Onu, Europa e, più o meno, dagli Usa - che ,per reggere, deve appoggiarsi oltre che alle milizie di Misurata, alla Fratellanza Musulmana e a un pulviscolo di bande armate molte delle quali legate all'Islam radicale, non distante da simpatie verso l'Isis o Al Qaeda. Haftar dalla sua, oltre alla Russia, ha l'Egitto, l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e anche una Francia incerta se sostenere anche le vaghe opzioni Ue.
Proprio mentre Haftar, grazie ai soldi e ai mercenari russi, nelle ultime settimane ha lanciato l'offensiva finale verso Tripoli, riuscendo a impadronirsi di Sirte -importante nodo strategico e petrolifero -, Al Sarraj sentendosi sull'orlo del baratro e senza alcun ascolto nelle cancellerie europee e di Washington, ha guardato anch'esso a est, trovando il sultano Erdogan pronto a farsi avanti.
Khalid Haftar
La Turchia, dopo aver rimosso in seguito al tentato golpe del 15 luglio 2016, la corrente laica delle forze armate e averle riportate sotto il potere assoluto di Erdogan, è riuscita a sfruttare la vittoria occidentale.russa-iraniana contro il Califfato in Siria, per regolare i conti con i curdi. Grazie al desiderio americano di portare via i soldati dal nord del Paese - vecchia promessa di Trump - e togliere perciò la protezione delle nuove entità territoriali curde, Ankara ha occupato un'ampia fascia di confine, necessaria - a suo dire - per garantire la sicurezza, in realtà per rimuovere i desideri di autodeterminazione del Rojava e del sogno curdo.
Ora, con Sarraj quasi sconfitto, il sultano di Ankara (QUI)ha colto un'occasione storica (ma anche pericolosa) per assicurarsi una protezione per Cipro, e lo sfruttamento senza troppi concorrenti delle risorse naturali in mare nel Mediterraneo orientale, e stabilire una presenza importante nel Mediterraneo. Anche in questo caso, la Turchia si siede adesso al tavolo per la sparizione della Libia, inviando solo 35 soldati effettivi - ma c'è il via libera per interventi diretti più pesanti - e assicurando l'arrivo di qualche migliaio di combattenti siro-turcomanni, veterani della lotta contro Assad e poi, ascari ideali, dell'offensiva anti curdi.
Fayez Al Sarraj
Putin ed Erdogan per molti aspetti sono su sponde opposte - la Libia è un esempio -, ma sfruttando l'assenza degli altri, trovano il modo di far finta di contrapporsi per poi spartirsi gli affari (QUI). Nel giro di qualche settimana così sia Ankara che Mosca sono diventati i principali protagonisti della guerra civile libica, riuscendo a definirsi come arbitri - da subito con un accordo sul cessate il fuoco (QUI) - della possibile pacificazione - ancora molto lontana e molto, molto incerta - e della - quasi certa - spartizione del Paese in due, fra Tripolitania e Cirenaica. Mettendo le mani sul petrolio, sul gas, utili soprattutto alla Turchia che pure, l'8 gennaio, ha firmato un accordo con Putin per il gasdotto TurkStream. Ma soprattutto stabilendo insieme un'altra testa di ponte, importantissima, che si affaccia sul Mediterraneo, a una manciata di km dalle coste italiane ed europee.
La girandola d'incontri del governo di Roma e di Bruxelles non sono altre che sterili rincorse per salvare almeno le apparenze e difendere le briciole, con Parigi che gioca su due piani, scommettendo però su Haftar. L'Europa e l'Italia questa partita l'hanno perduta, forse l'Eni salverà la gestione di alcuni pozzi, ma dovranno presentarsi con il cappello in mano a Mosca ed Ankara. L'unica possibilità, esclusa l'ipotesi fantapolitica, del ministro Di Maio di un contingente Onu come in Libano - nessuno lo vuole e anche la Ue è fredda - sarebbe quella di un intervento armato in prima persona. Ma chi ci mette i soldati, con il rischio di farsi sparare addosso? E chi può affrontare i costi?
Parigi sarebbe quella che ha la struttura militare capace di costituire l'asse portante di una eventuale missione - con la sua Legione straniera e la presenza nell'Africa sub sahariana - mentre per l'Italia si tratterebbe di uno sforzo eccessivo e quasi impossibile al di fuori di una coalizione a impronta Nato. L'altro agente, fondamentale per un possibile intervento, sono gli Stati Uniti, ma la dottrina unilaterale di Donald Trump - con l'impegno possibile ora in Iran-Iraq - porta i militari Usa lontano da qui. E se Washington decide di appoggiare qualcuno, ora è possibile che le simpatie si siano volte più verso Haftar che nei confronti del più debole Al Sarraj (QUI).
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