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Il punto debole di Pechino

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Non hanno paura delle ombre cinesi, gli abitanti di Hong Kong. Non sono ombre quelle che si allungano sull'ex colonia britannica, ma mosse ben precise che il governo di Pechino sta adottando
per arrivare ad estendere all'area non tanto la piena legislazione cinese bensì per limitare quelle esistenti e rimaste dall'amministrazione di Londra.

La storia di Hong Kong

A migliaia, decine, centinaia di migliaia, fino a un milione, stanno scendendo in piazza in questi giorni contro l'emendamento alla legge sull'estradizione  - finora regolato da rapporti bilaterali in atto con molti Paesi ma non con la Cina -, una modifica che viene vista con la volontà di erodere ancora una volta l'autonomia della quasi città-stato dove, va sottolineato, sono garantiti libertà di parola e di riunione. In pratica a  Hong Kong si teme che la rivisitazione della legge (QUI) consentirà, in nome della sicurezza e della politica in tal senso attuata con fermezza da Pechino ( quest'anno poi ricorre il trentesimo di Tienanmen e per il PCC non è una bella data) si poter estradare persone ritenute responsabili di omicidi o reati sessuali o comunque in grado di attentare alla sicurezza. Una linea che potrebbe anche consentire di portare in Cina attivisti dei diritti umani e dissidenti, anche stranieri, che  Pechino assimila a terroristi. E' vero che la riforma non si dovrebbe applicare a questo tipo di reati (come a quelli finanziari ed economici, Hong Kong non vuole certo perdere il ruolo e i vantaggi di essere una piazza più che opaca e riservata sulle operazioni di mezzo mondo, nonché il custode di segreti economici inconfessabili), ma c'è la possibilità che socchiudere l'uscio possa lasciare spazio  a violazioni più palesi e magari "legalizzare" alcune sparizioni, come ricorda un memorandum sulla crisi dell'Ispi:
... "nonostante il piano di estradizione non si applichi ai reati politici, un ulteriore rischio è che la nuova normativa finisca per legalizzare, in un certo qual modo, i rapimenti che si sono susseguiti a Hong Kong negli ultimi anni e di cui Pechino è stata in molte occasioni ritenuta la principale mandante". (Ispi)
La posta in gioco è alta: Hong Kong, al pari di cinque anni fa con la riforma elettorale che strinse il controllo di Pechino sulle istituzioni locali e contro la quale scoppiò la "rivolta degli ombrelli", vede avvicinarsi in fretta la scadenza del 2047 quando secondo l'accordo del 1997 con il Regno Unito, la competenza sulla città più occidentale sarà totalmente delle autorità comuniste. I cittadini temono infatti che, senza aspettare altri 28 anni, le autorità di Pechino stiano cercando in modo dolce e quasi inosservato di erodere l'autonomia (QUI la spiegazione della Bbc) di una delle maggiori piazze finanziarie mondiali, la più occidentale che se abitata al 95% da cittadini di etnia cinese. Anche se, ricorda ancora la Bbc, solo il 15% della popolazione si riconosce come cinese e la maggioranza preferisce definirsi "hongkonger".

Del resto gli indizi sono numerosi: oltre alla riforma elettorale, il controllo sempre maggiore che il PCC ha sui vertici delle istituzioni - il capo dell'esecutivo Carrie Lam Cheng Yuet-ngor Carrie Lam(a fianco) non a caso ha attaccato i manifestanti come spiega qui sotto il South China Morning Post (SCPM):
"Chief Executive Carrie Lam Cheng Yuet-ngor took aim on Wednesday at protesters against the extradition bill, reprimanding them for “organising a riot”. Hours before the protest descended into bitter clashes with police, a tearful Lam had also said she would not respond to calls to resign or withdraw the bill and that she had a clear conscience pushing it through".
La stessa Carrie Lam ha ribadito che l'iniziativa della nuova riforma legislativa è partita proprio dall'esecutivo della città e non è stato "suggerito" dalla Cina. Ma i dubbi su tale dichiarazione sono ampi.
Pechino è ben conscia dei problemi che potrebbero nascere, non solo d'immagine, se le proteste (possibili proprio per lo status di cui la città gode) dovessero continuare: il rischio è che venga meno il principio sottoscritto del "One Country, Two Systems" che hanno garantito la piazza finanziaria ma soprattutto la considerazione e l'apertura del resto del mondo verso la Cina sul piano economico. Hong Kong, con la sua libertà finanziaria, la sua autonomia ha goduto e gode di uno status speciale che ora, se non si arrivasse a una rapida soluzione e in tempi di guerra commerciale, potrebbe portare gli Stati Uniti di Trump ad approfittare e rimettere in discussione proprio quella garanzia (QUI Bloomberg).
Una possibilità che apre scenari tremendi con un ritiro di capitali e un congelamento degli investimenti associato a una rarefazione degli scambi con la piazza asiatica. Lo annota ancora il South China Morning Post:
"In spite of the challenges Hong Kong has sometimes faced from Beijing, it remains autonomous. In fact, Hong Kong has such a degree of autonomy that outside institutions, like the World Bank, view its norms, such as the rule of law and low levels of corruption, as being on par with places like Sweden and Canada. This precious condition is what makes the territory a magnet for business."
Lo stesso SCMP, al proposito, spiega che nei primi 10 mesi del 2018,  Hong Kong ha contribuito o facilitato 69,3% degli investimenti diretti estero (IDE o FDI) in Cina. (QUI)
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