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Davos, l'illusione di contare ancora


Torna Davos, con la sua neve, la sua irrangiungibilità alle contestazioni vecchio stile - quelle di piazza, dei figli di Seattle e del G8 di Genova per capirci -, i suoi cecchini. E soprattutto con le sue élite filo-occidentali, dei Paesi più ricchi ed esclusivi che nei salotti riscaldati discutevano di scenari affascinanti, ovviamente capitalisti, ma aperti al futuro, alle sue innovazioni “buone”, all’evoluzione pulita e molto upper class.

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Da qualche anno questi forum hanno cominciato a mostrare i loro limiti, la loro accademia, i loro proclami e le loro risoluzioni sterili perché raramente si traducevano nella pratica, in particolare verso il miglioramento delle condizioni delle popolazioni meno abbienti e di Paesi lontani dagli standard, anche economici, del mondo a conduzione occidentale.

Come osserva giustamente Stefano Feltri nei suoi Appunti subentra quasi un moto di nostalgia per la Superclass degli anni addietro e delle convinzioni di no vax e complottisti secondo i quali, proprioin assise come quella di Davos, anzi sopratto in quella, si mettevano a punto le strategie per gidare il mondo verdso gli iteressi dei banchieri di Wall Street, Soros , la Trilateral, Bildenberg e compagnia cantante.

Purtroppo per costoro e un po’ anche per tutti noi non è più così. Davos rischia di svuotarsi ogni volta di più, restare preda di studi e slogan vuoti o comunque condivisibili da tutti ma senza effetti pratici. Ma in particolare questo appuntamento, come altri (forse anche lo stesso Ambrosetti di Cernobbio), sono la certificazione di come la gran parte degli interessi geopolitici ed economici si siano spostati altrove, fuori dall’Occidente e dell’Europa, che la possibilità di eterodirigere sia scemata - semmai fosse esistita - e gli equilibri non siano più tali. Anzi il mondo, almeno dal dopogruerra, non è mai stato così destabilizzato. E non è ancora finita.

Secondo Feltri, che prende ad esempio le proteste degli agricoltori tedeschi e il possibile ritorno di Trump alla Casa Bianca, le maggiori resistenze alle politiche necessarie per arginare la crisi mondiale che aleggia e colpisce in vari modi i cittadini occidentali e non solo, le maggiori resistenze - dicevamo - arrivano dalle opinioni pubbliche democratiche che sembrano quasi stufi di essere, appunto, democratiche.

Qualche anno fa andava di moda l'espressione contenuta nel titolo di un libro di David Rothkopf: la “superclass”, per denunciare il distacco tra l’élite di Davos e il mondo reale. Oggi rimpiangiamo quei tempi ingenui, in cui pensavamo che il problema fosse lo strapotere dei banchieri di Wall Street, delle industrie della difesa, delle multinazionali che stordivano le società occidentali di bisogni non necessari. (Feltri, Appunti)

Davos gira lontano dal mondo reale, è questa una constatazione più che una percezione: la guerra in Ucraina vede il sostegno europeo e Usa in discussione, nei governi (e negli Usa, se dovesse vincere Trump, andrà ancora peggio) come nelle opinioni pubbliche stanche di una guerra che non si vince come avevano fatto intendere in un primo momento leader, Zelensky e militari e soprattutto costa: di quello che è più che un focolaio, anzi una seconda guerra vera e propria, in Medioriente a Davos si parla poco o di sfuggita, quando invece è il punto di crisi capace di far deflagrare il resto del mondo; Cina-Taiwan potrebbe essere il terzo innesco per il nuovo conflitto mondiale, ancora di più dopo la vittoria alle presidenziali di Li Keqiang, meno aperto al dialogo con Pechino: la transizione ambientale e i rischi per il pianeta sono meno centrali nelle teste di governi e cittadini ora che si misurano in termini di risorse necessarie i cui costi vengono scaricati proprio sui cittadini: i nuovi assetti geopolitici guardano a Oriente o in direzione dei Brics con molte incognite. Incertezze o letture impossibili per ora che vanno dal Medio Oriente diviso dalla sfida Arabia-Iran e dalla risorta questione palestinese con Israele ormai diretta verso la guerra permanente, alla Cina per nulla democratica e con crisi interne sempre nascoste, alla Russia che le sanzioni non piegano ma ancora gigante, al Brasile che non spicca il volo, all’Argentina che si prefigura un domani di caos e deregulation totale, fino agli Usa ancora avvinti dalle serene ultra populiste e ultra isolazioniste.

Davos non risponde o non sa rispondere: alle guerre, in primis con ruoli di pacificazione/interposizione che nessuno in assenza di una vera leadership, vuole ed in grado di interpretare (Onu in testa). Non risponde alle disuguaglianze crescenti, ai pericoli dell’era dell’AI (qui e qui), della globalizzazione interrotta e in parte anche fallita, del come sostenere in concreto un processo democratico dovrebbe guidare i Paesi che oggi invece sembrano preferire modelli autocratici o addirittura teocratici.

La società condivisa e cooperante che questi forum promuovono non soi è affermata. Tutt’altro, anzi è messa in discussione dalle neo-religioni laiche dei visionari che si sono abbeverati alla fonte del Covid e post Covid e attualmente si alimentano dei conflitti reali e virtuali (basti pensare alle crudeli tenzoni social).

Il WEF produce ogni anno un articolato Global Risks Report che stabilisce i punti complicati del passaggio umano e soci-economico dell’anno: interessantissimo, documentato come pochi, argomentato al pari. Però distante, come la stessa Davos è fisicamente isolata dal mondo reale, lassù, chiusa tra le Alpi svizzere, sigillata dalla neve. Utile alert al mondo occidentale, e non solo, un warning attendibile, ma anche esercizio sterile se rapportato ai risultati che Davos ottiene anno dopo anno, che non siano quelli di qualche accordo di terzo livello o affari più o meno privati che escono stipulati dalla convention. Nella sua spiegazione, il WEF sostiene che la piattaforma Global Risks Initiative serve a monitorare i rischi globale - e fin qui è scontato - e sostenere la preparazione e la resilienza al prossimo shock globale. A parte il dare come ineluttabile un prossimo shock globale ( ma nessuno a Davos aveva previsto le guerre in atto, il Covid mentre le crisi economiche godono di previsioni alterne ormai da decenni e quasi mai centrate o attendibili entro margini accettabili) ,a vocazione è di voler mettere in campo azioni proattive per orientare le strategie di reazione. Operazioni i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti. Desolanti, nel migliore dei giudizi, marginali o assenti. Gli unici che possono contraddire, a ragione, sono con tutta probabilità alcuni settori di imprese, singoli operatori, banchieri, finanzieri che da questi forum sono usciti con intese limitati ai propri ambiti, ma nessuna ricaduta sulle collettività. Indicativo, a questo propposito, potrebbe essere il Global Cooperation Barometer 2024

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